Ferro 3 indica una mazza da golf. Vero simbolo del film, diventa strumento dalle molteplici funzioni e chiavi di lettura. Il ferro 3 come amore, morte, esplosione di rabbia, libertà, fuga.
L'idea è fulminante e già di per sé degna dei grandi film dell'epoca muta; la costruzione del personaggio principale, grazie anche ad un giovane attore, Hee Jae, è quantomeno perfetta e all'altezza di un Buster Keaton dei tempi d'oro.
Chissà se può risultare appropriata un'analisi per un film che si presenta, vero, ricco di simboli e letture svariate e di varia natura, ma che vive ad ogni modo di un'aureola che pretenderebbe sensazioni più che letture.
Tae-suk, non-alieno, anima vagante non identificabile è pieno di identità, balza da una casa all'altra. Non per rubare, né tantomeno per uccidere. Non è voyeur, ma nemmeno un curiosone. Non è un senzatetto, ma nemmeno un ricercato dalla polizia. Più semplicemente si potrebbe cominciare a dire che cerca pace, o meglio: è lui stesso, tra le altre cose, la reincarnazione del concetto pace. Trovare armonia in uno spazio vuoto. Pessimisitica metafora sulla serenità che un uomo non può trovare all'esterno a contatto con suoi simboli? Più che altro casa vuota come elemento di oasi, distensione interiore, non necessariamente riflessione. La ragazza che incontra sul suo cammino è invece umana a tutti gli effetti, sebbene faccia parte di quella categoria sognante (e sognata) che oltre a desiderare un'ovvia evasione dal quotidiano ci crede anche.
Fuga pressocché totale dallo squallore giornaliero, dalle piccole e grandi insignificanti cose della vita. In definitiva un essere degno della casa vuota ipoteticamente da abitare assieme a suoi rari simili. È dunque quasi certa la presenza nel mondo reale del giovane intruso. Accade che lui entri nella casa della donna, ma dal momento che lo vede allontanarsi da essa per la prima volta in poi non ci è dato sapere se ciò che vediamo è un qualcosa che sta effettivamente accadendo o meno.
La potenza del cinema.
Da quel momento in poi ogni spettatore può decidere, immaginare, quando il protagonista scompare veramente dalla vita materiale della donna. Ci piace pensare che il viaggio dei due sia reale. Chiaro poi che in circostanze tanto pure e rarefatte debba nascere una storia d'amore.
E dunque dopo l'adempimento delle case vuote la graduale conquista del mondo è avviata.
Non mancano ulteriori elementi sereni, che talvolta sfociano in un surrealismo sorridente: a cominciare da quella galleria fotografica di cui si arricchisce il giovane, per proseguire in fotografie stranamente decomposte. Per non parlare dei siparietti ariosi in uno spazio claustrofobico quale può essere una prigione di isolamento, vere e proprie invenzioni di regia che culminano in un criptico occhio stampato sul palmo della mano. Con l'ingresso in carcere il film forse assume davvero connotati fantastici.
Fine di una corsa terrena, inizio di un'altra: la realtà e l'irrealtà si fondono, e finiremo nei territori del meraviglioso.
Una fuga dal carcere, forse una liberazione, molto più probabilmente un'utopia. Conta poco nel contesto di ciò che seguirà. Visitare le case vuote per assicurarsi di aver fatto bene il suo lavoro. Fino a giungere alla residenza della ragazza per l'ultima, eterna volta. È a questo punto che ognuno sceglie dove porsi, facendo riferimento al ruolo dello spettatore. Il ragazzo non è un fantasma (davvero riduttivo sarebbe pensare in conclusione ad una ghost-story): è l'aria riuscita a purificare, l'ambiente splendente che riflette nel nostro cuore, la personificazione vivente di angelo custode, la ragione e il sentimento, la speranza di crederci ancora alla fine di dure giornate.
Vedere e rendere credibile il protettore di un qualcuno o qualcosa è impresa aruda, ma in questo caso non solo si riesce in ciò, ma si va tanto oltre che invano varrebbe la pena scavare a fondo.
È semmai il film che scava dentro noi e durante la visione l'attivo meccanismo svolto interiormente è palese, lo sentiamo, ci sfugge, resta una grande scia di piacere.
Il finale in definitiva non è edificante. Si può parlare di ottimismo appena abbozzato, forse. Ma se si è fedeli alla visione della speranza che giunge esclusivamente dall'"esterno" l'opera arriva perfino a essere letta in chiave pessimista.
Niente è ciò che sembra in "Ferro 3", nulla è banale, tutto giunge inaspettatamente eppure in maniera tanto pacata e "giusta" che l'irrealtà sembra molto più naturale della vita stessa. Ma quale sarà mai la dimensione esatta? Dov'è la vera vita?
Kim Ki-duk, ancora innominato in questa mia personale visione, entra di diritto in quella schiera di cineasti orientali che, attraverso opere uniche, gettano uno sguardo altro ed alto sul mondo del cinema e sul mondo in generale.
Tra dubbi, incertezze e ipotesi ci sono sicurezze in "Ferro 3"? Cos’è "Ferro 3"? Innanzitutto, parole dello stesso Kim Ki-duk, è un film sulla solitudine, su cosa vuol dire essere solo nella società moderna, con conseguenti e già accennate vie d’uscita (?).
Una metafora sul cinema aperto/chiuso, pieno/vuoto, fertile/morto.
Una straordinaria storia d'amore (e sui sentimenti tutti) dove il cuore fuoriesce dal corpo, ed una volta catturato Amore lo pone nel suo interno.
Un film sul sogno (ad occhi aperti), sulla nascita di una nuova realtà capace di distruggere le brutture del mondo. Un'opera di meraviglia che fuoriesce da ogni suo poro.
Un'opera immensa sull'immensità dei piccoli spazi, di poesia emersa dal quotidiano.
E in questo regno (cinematografico e reale) che rifiuta la parola (eppure quasi opposto alla talvolta sublime staticità di Tsai Ming-Liang), quando riesce anche a commuovere nell’ambito della sua serenità la scintilla è definitivamente accesa.
cast:
Hee Ja, Lee Seung-yeon, Kwon Hyuk-Ho, Joo Jin-Mo
regia:
Kim Ki-duk
titolo originale:
Bin-Jip
distribuzione:
Mikado
durata:
88'
produzione:
Kim Ki-Duk, Michio Suzuki
sceneggiatura:
Kim Ki-duk
fotografia:
Jang Seong-back
scenografie:
Art Chungsol
montaggio:
Kim Ki-duk
costumi:
Koo Jea-Heon
musiche:
Slvian