Il settimo punto della Dichiarazione del Minnesota, il manifesto programmatico della poetica documentaristica di Werner Herzog, che il cineasta tedesco lesse durante un dibattito tenutosi al Walker Art Center di Minneapolis il 30 aprile del 1999, recitava, in maniera piuttosto concisa: "Tourism is sin, and travel on foot virtue". Il turismo è peccato, e viaggiare a piedi è virtù.
E il penultimo documentario del prolifico regista tedesco (e terzultimo lungometraggio, dato che, nelle more della distribuzione in sala di questo "Nomad", Herzog ha già licenziato altri due film, "Family Romance, LLC" e "Fireball: Visitors from Darker Worlds") si apre proprio mettendo in scena questa antitesi: le immagini dei turisti in visita alla Cueva del Milodón, che si accalcano per le foto di rito attorno alla riproduzione a grandezza naturale del bradipo gigante del pleistocene, scorrono accompagnate dalla voce di Bruce Chatwin, tratta da una registrazione in cui legge le prime pagine di "In Patagonia", il suo libro più celebre, scritto durante il viaggio nell’estrema propaggine meridionale del Sudamerica. Proprio in quelle pagine lo scrittore inglese raccontava il sé-bambino attirato da quel frammento di pelle di "brontosauro" che era in realtà, per l’appunto, il milodonte cileno.
Il tema della narrazione dei fatti, tanto caro a Herzog, emerge dunque già dai primi minuti di "Nomad - In cammino con Bruce Chatwin", il documentario con cui il regista tedesco ripercorre le orme, le gesta e le opere di uno dei più famosi scrittori degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, già celebrato in vita e diventato autore di culto dopo la sua tragica e prematura scomparsa causata dall’Aids. Anche Chatwin, come Herzog, era stato infatti accusato di manipolare la realtà, nei suoi racconti e nelle sue opere. Una scelta ben precisa, per Herzog, che ne aveva fatto la sua missione, difendendosi contrattaccando e scagliandosi contro il Cinéma Vérité e la sua "verità di pura superficie", quella banale esposizione dei fatti che definirà, con espressione caustica ma efficace, la "verità dei contabili". Una verità che si contrappone a quella ricercata dal regista a un livello più profondo, quella che diventerà famosa con le locuzioni herzoghiane di "verità estatica", "verità poetica" o "verità intensificata". Una verità che – paradossalmente – può essere raggiunta solo con l’invenzione e l’immaginazione, un'idea che ha in "Apocalisse nel deserto" (1992) la sua rappresentazione più significativa.
Ancora una volta viene in soccorso la Minnesota Declaration, che paragonava i cineasti del Cinéma Vérité a "turisti che scattano fotografie tra le rovine dei fatti" (e quelle immagini apparentemente innocue che aprono "Nomad" finiscono dunque per acquistare un retrogusto maliziosamente sbeffeggiante). Herzog, in sostanza, vede in Chatwin un suo sodale non soltanto per un rapporto - durato oltre un lustro, dal 1983, quando si conobbero in Australia, fino a pochi giorni prima della sua morte, avvenuta nel gennaio del 1989 - di amicizia e di collaborazione professionale ("Cobra verde", uno dei lungometraggi di finzione più celebrati di Herzog è tratto da un soggetto chatwiniano, il romanzo "Il viceré di Ouidah", seconda opera dello scrittore britannico). Herzog e Chatwin sono soprattutto accomunati da un metodo che rende del tutto analoga la loro opera di rappresentazione del reale, che sia su carta o su cellulosa.
Il documentario scandaglia l’opera omnia chatwiniana, da "In Patagonia" ai libri pubblicati postumi, tra cui la raccolta di scritti "Anatomia dell’irrequietezza", testamento spirituale dello scrittore inglese, che fin dal primo viaggio in Sudamerica covava il progetto di un trattato sul nomadismo, che analizzasse l’avversione per la stanzialità e la pulsione umana verso gli spazi aperti e il movimento. La struttura in capitoli conduce lo spettatore in un percorso privo di rigore cronologico, dato che ci si sposta dalla Patagonia all’outback australiano immortalato ne "Le vie dei canti", dal Regno Unito al Ghana, per poi tornare in Sudamerica, senza una logica apparente che non sia quella di seguire pensieri e ricordi dello stesso Herzog e delle due persone legate a Chatwin che egli intervista, la vedova Elizabeth e il suo biografo Nicholas Shakespeare.
Interviste cui si alternano immagini di luoghi meravigliosi, toccati da Chatwin (e da Herzog) durante i loro pellegrinaggi laici in giro per il mondo: quelli della Terra del fuoco e dell’outback australiano, su tutti. Immagini straordinarie, nella perfetta tradizione dell’Herzog illustratore di paesaggi, quello di "Il diamante bianco" e "Encounters at the End of the World", dell’ingiustamente poco considerato "Happy People: A Year in the Taiga" e dell’avvolgente "Dentro l'inferno", di "Gasherbrum - Der leuchtende Berg" e di "Grizzly Man" (per restare nell’ambito ristretto dell’Herzog documentarista). I paesaggi geografici si uniscono alle rappresentazioni socio-spirituali, e così le immagini della Cueva de las manos richiamano immediatamente quelle della Grotta Chauvet girate in "Cave of Forgotten Dreams", mentre i rituali aborigeni che Chatwin analizzò ne "Le vie dei canti" costituiscono un ideale continuum con i concetti espressi da Herzog in "Kalachakra, la ruota del tempo".
Herzog non è mai succube dei formalismi e non ricerca ossessivamente l’orpello stilistico, anzi, soprattutto durante le interviste, si concede momenti naif che sembrerebbero mal conciliarsi con l’esperienza di un regista che ha al suo attivo una settantina di film (le inquadrature in primo piano di oggetti posti davanti all’obiettivo della mdp, in luogo di quello che sarebbe stato un più convenzionale stacco di montaggio con inquadratura in dettaglio). Ma del resto Herzog è chiaramente e totalmente immerso nel suo obiettivo di esplorare la verità estatica. In questo caso, quella in grado di descrivere nella sua essenza un collega (in quanto scrittore e viaggiatore), collaboratore ed amico. E quando si lascia andare a momenti che potrebbero apparire come autoreferenziali (come quelli in cui finisce per dilungarsi in digressioni sui suoi film - pur affermando, ma soltanto a parole, di voler mantenere il discorso su Chatwin - o quelli in cui i ruoli si invertono in maniera abbastanza inusuale, con Nicholas Shakespeare che inizia a porre domande al suo intervistatore), si tratta sì di momenti apparentemente fuori bolla, ma che soltanto uno come Herzog, del resto, può permettersi senza il rischio di trascinarsi in un’inopportuna caduta nell’auto-celebrazione. Herzog, del resto, è quel regista-monumento che non più di un anno prima di "Nomad" aveva dialogato a quattr’occhi con l'ultimo segretario dell’Unione sovietica in "Meeting Gorbachev". È il cineasta che meglio ha saputo mescolare verità e finzione, giungendo all’apparente paradosso di rendere, per certi aspetti, alcuni suoi film a soggetto più simili a dei documentari e viceversa.
L’isolamento come parte della condizione umana è un tema ricorrente nella poetica herzoghiana, che sia quello inesorabile, in quanto patologico, dei sordociechi di "Paese del silenzio e dell'oscurità" (opera fondamentale) o quello geografico del villaggio siberiano di "Happy People: A Year in the Taiga", o ancora quello fisico e psicologico imposto dal contratto sociale ai condannati in attesa dell’iniezione letale nell’opera che affronta il tema della pena di morte, "Into the Abyss". L'isolamento che Chatwin ricercava nelle sue peregrinazioni o quello che lo stesso Herzog inseguiva con le sue epiche camminate, quella da Monaco all’Albania e quella da Monaco a Parigi, sorta di pellegrinaggio e voto laico in onore della sua mentore Lotte Eisner, che si trovava gravemente malata nella capitale francese.
Chatwin e Herzog: due nomadi instancabili, due dei più grandi narratori moderni della condizione umana, ognuno nel suo ambito, sotto quel profilo, forse sociologicamente sottovalutato, dell’isolamento dinamico.
cast:
Werner Herzog, Nicholas Shakespeare, Elizabeth Chatwin
regia:
Werner Herzog
titolo originale:
Nomad - In the Footsteps of Bruce Chatwin
distribuzione:
Wanted, Feltrinelli Real Cinema
durata:
85'
produzione:
BBC Scotland, BBC Studios, BBC2
sceneggiatura:
Werner Herzog
fotografia:
Louis Caulfield, Mike Paterson
montaggio:
Marco Capalbo
musiche:
Ernst Reijseger