Duncan Jones - autore dei pregevoli "Moon" e "Source Code" - si affida, come molti altri registi e autori negli ultimi tempi, alla produzione e distribuzione di Netflix per il suo quarto lungometraggio, "Mute", che s'innesta nel genere fantascientifico prediletto dal regista inglese. Ma a differenza delle sue opere precedenti, sgombrando fin da subito ogni dubbio, si tratta di un tonfo per il giovane regista inglese. Co-sceneggiato insieme a Michael Robert Johnson (autore dello script di "Sherlock Holmes"), la storia di Leo Beiler, muto a causa di un incidente avvenuto quand'era bambino e mostrato nell'incipit, che lavora come barista in una Berlino futurista, che vuole somigliare alla Los Angeles di "Blade Runner", risulta piena di ostacoli nella fluidità narrativa e nella costruzione dei personaggi. Jones lavorava al progetto da diversi anni e molti lo hanno indicato come una specie di sequel della sua opera prima. Ma non ha nulla del mistero lento e dell'allure metafisica di "Moon", così come manca della dinamicità e dell'originale messa in serie di "Source Code", in cui la ripetizione temporale, che procedeva in accumulazione di dettagli fino allo svelamento finale, era una cifra stilistica che rappresentava un'ulteriore tappa di maturità del regista.
Non convince in "Mute" nemmeno il protagonista, presentato come quacchero e ferito nell'animo e nel corpo, con il suo silenzio, metafora di un qualcosa che non si intuisce mai né si comprendono i perché. E il finale nell'acqua, dove lui risorge, si collega direttamente all'inizio, in cui l'elemento fluido dovrebbe diventare un luogo di morte e rinascita per un personaggio che però non evolve mai e gira a vuoto per tutto il film alla ricerca della fidanzata scomparsa. Se il mutismo potrebbe essere una modalità nel rendere il protagonista un loser che cerca riscatto, all'interno dello sviluppo della storia, egli invece di diventare soggetto attivo si trascina passivamente, subendo tutto ciò che gli gira attorno. Un semplice spettatore come, appunto, un barman dietro a un bancone. E a nulla valgono i suoi scatti d'ira, lo stato attuale in cui vive, la religiosità che in qualche modo lo distinguono dagli altri: tutti elementi che non prendono mai forza, non sono mai fino in fondo resi caratterizzanti, ma rappresentati come orpelli di una psicologia superficiale e di basso profilo.
Anche la Berlino del 2052, porto franco, dove per poter andare via ci vuole il passaporto, in cui due chirurghi americani, legati alla malavita, sono alla ricerca di una via di fuga. In particolare, Cactus Bill (un pessimo Paul Rudd) si trascina sempre dietro la figlia (anch'ella muta per tutto il film) tra bordelli, bar, club, luoghi poco raccomandabili, e appare come un antagonista urlatore, rabbioso, insoddisfatto, in attesa di fuggire da una città odiata e trasformata in un luogo generico, spento, povero, dove la scenografia risulta sempre piatta, priva di profondità spaziale e resa scevra da riflessi emotivi. Un fondale dove i personaggi si muovono come figurine impazzite, per motivi privi di un senso, dove anche l'abiezione dei loro comportamenti appaiono artificiosi, scontati.
Duncan Jones voleva in qualche modo omaggiare un periodo della vita del padre (David Bowie che visse a Berlino) e il rapporto filiale, ma procede incerto, sconclusionato. "Mute" mette in fila una serie di episodi, seguendo i personaggi di Bill e di Beiler in parallelo, ma mostrando la corda di una incapacità di collegare in modo fluido gli eventi, che risultano raffazzonati, incollati tra di loro e facendo cadere molti episodi che rimangono isolati. Oltretutto, tutto il cast recita in modo forzoso, senza alcuna naturalezza né immedesimazione nei personaggi che impediscono qualsivoglia interesse per loro da parte dello spettatore che li vive distanti, distaccati, lontani sia nel male sia nel bene.
Un film di una tale ambizione che implode su se stesso, una pellicola che rimane sempre annegata al suo inizio senza mai salire dalla superficie, prendere respiro, in un'immersione nel buio della notte dove la luce, anche quando appare, non illumina mai gli eventi e i personaggi. A tratti gli atti e le motivazioni dei protagonisti sono prive di senso, annegando in un guazzabuglio iconico che rende la visione pesante. Non ci resta che rimandare Duncan Jones al prossimo lavoro e calare una coltre di silenzio su questo "Mute".
cast:
Alexander Skarsgård, Seyneb Saleh, Paul Rudd, Justin Theroux
regia:
Duncan Jones
titolo originale:
Mute
distribuzione:
Netflix
durata:
126'
produzione:
Liberty Films UK, Studio Babelsberg, Netflix
sceneggiatura:
Michael Robert Johnson, Duncan Jones
fotografia:
Gary Shaw
scenografie:
David Scheunemann
montaggio:
Barrett Heathcote, Laura Jennings
costumi:
Ruth Myers
musiche:
Clint Mansell