Copia ancora, copia meglio. Le parole - rivisitate - di Samuel Beckett (tratte dal romanzo "Molloy") ci possono venire in soccorso per raccontare la storia (vera) dei primi "pirati" musicali, i fratelli Frattasio. Siamo a Napoli, precisamente a Forcella, negli anni Ottanta. A Peppe, Enrico e Angelo viene insegnato sin da piccoli a vivere sfruttando (piccoli) escamotage innocenti, per imbrogliare e fare soldi. Non necessariamente tanti soldi, quelli necessari per vivere bene, per rimanere integri. Sembra essere proprio l’onestà il tratto imprescindibile di tutti i personaggi di Sydney Sibilia, ormai, pienamente a suo agio nel narrare favole. Onestà, però, che deve fare i conti - sempre - con un’illegalità di fondo, giustificata da intenti valorosi, tipici dei veri (anti)eroi. La "banda" dei ricercatori di "Smetto quando voglio" lo ha fatto per una necessità di rivalsa, dopo anni di sfruttamento e mancata meritocrazia, atteggiamenti tipici degli ambienti universitari. Ancora disobbediente è stato Giorgio Rosa, creatore di una piattaforma d'acciaio costruita con le sue mani a mezzo chilometro di distanza dalla costa riminese, protagonista de "L’incredibile storia dell’isola delle Rose". Sibilia, quindi, dimostra una particolare predisposizione verso un racconto "favoloso", ma ancorato alla realtà.
Sono tutti fuoriclasse, i protagonisti delle sue pellicole (il regista ha anche prodotto "Il campione", Leonardo D'Agostini, storia di un - altro - talento), ma nessuno di loro sembra averne consapevolezza. Enrico, per esempio, del sogno di essere disc jockey ne parla sussurrando appena, con una voce debole, tentennando. I suoi fratelli hanno personalità definite (Peppe è l’intellettuale della famiglia, che ha ottenuto la quinta elementare; Angelo è testardo, ma sa come proteggere e proteggersi), lui sa solo ascoltare musica. Al massimo riesce a consigliarla. Non reagisce ai soprusi, agli sfottò di chi sostiene non abbia lo stile, la bella presenza, e neppure l’internazionalità per fare il dj. Non replica neppure di fronte alla violenza, lascia che siano altri a intervenire. E ad assumersi la responsabilità. Il momento di reagire deve arrivare (e arriva!), basta reperire i mezzi e servirsene sfruttando - ancora - quel confine tra legalità e illegalità, così facilmente manipolabile. È così che nasce "Mixed by Erry".
La domanda è inevitabile: come si riesce a non finire nel girone dei film di (questo) genere? Quelli, cioè, che mostrano le gesta di tutti gli ultimi - spesso nerd - che ce l’hanno fatta, nonostante il destino avverso, la mancanza di soldi e fiducia da parte di tutti. Come si scappa dal mettere in scena quel sentimento di rivalsa che cede - in parte - a un buonismo eccessivo? Potrebbero essere validi esempi una gran parte dei biopic musicali, anche se quasi sempre percorrono la strada della dannazione. Basti pensare a "Control", "Last Days"; o, allontanandoci dalla musica per arrivare alla tecnologia, "The Social Network" o "Steve Jobs". Sydney Sibilia sceglie di non cadere in questi schemi, rifugiandosi in un sano romanticismo che tocca i cuori di coloro i quali le cassette le hanno ascoltate davvero, non solo viste. Perché, il racconto dell'"era del Televideo", per chi c’è stato, è un piacevole viaggio nei ricordi e nei luoghi della memoria, che suscitano sensazioni di calma e acquietamento. Ritrovare - e riconoscere - quelle memorie, restituisce loro unicità, ricordando a ognuno di noi (un "noi" che si riferisce, perlomeno, a chi ha vissuto in quegli anni) che la durata - quella cantata da Peter Handke - non si riferisce a una durata fisica in cui si manifesta un fenomeno misurabile esattamente nel tempo, ma assume il significato di un’intuizione, come quella bergsoniana. E, come tale, è piuttosto un sentimento. Un’emozione nell’avvertire che qualcosa perdura, come l’esistenza di un luogo, la vista di un oggetto, le parole di una canzone.
Sydney Sibilia abbandona quello spirito creativo e reazionario delle sue quattro opere precedenti per lasciarsi andare a un (comodo?) romanticismo, a una solidarietà familiare che intenerisce (i tre Frattasio, insieme al padre, sono inseparabili), a un atteggiamento un po’ goffo - anche quando ormai si è arrivati in cima - che strappa un sorriso. È la nostalgia a prevalere sul resto, nonostante la regia - diversamente da come è stato finora - rifiuti di approfondire una riflessione su cosa significhi vivere in un paesino in cui essere dj sembra fallimentare in partenza. Napoli c’è e si sente: ci sono le persone, i soliti luoghi comuni (grandi esponenti della criminalità e piccoli traffichini, ad esempio), i festeggiamenti dello scudetto del 1987. Manca, però, una presa di coscienza più profonda, meno concentrata a compiacere un pubblico che (spesso) si adagia su prodotti commerciali. Sibilia un po’ ne ha "approfittato", l’importante, però, è riuscire a bloccare questo meccanismo, smettendo quando si deve, non solo quando si vuole.
E la musica? Si passa dai Jackson 5 ai Tears for Fears, a Sanremo e alle sue "talpe". I Frattasio, infatti, sono stati particolarmente "inseguiti" perché sono riusciti a duplicare una compilation del Festival, mentre era in corso. Chi era la loro talpa? Qualcuno in Rai, o a Sanremo stesso? E, a questo proposito, è stato Deleuze a sostenere che il potere non vede e non parla, ma si muove come una talpa e si riconosce solo attraverso le sue gallerie. Quali sono state, allora, le gallerie dei fratelli Frattasio? Di sicuro hanno avuto più interesse nell’avere potere che nell’avere soldi. Anche perché, basta l’arrivo dell’euro per cambiare le sorti del successo. E per riscrivere tutta la storia: cosa si è guadagnato?
regia:
Sydney Sibilia
distribuzione:
01 Distribution
durata:
110'
produzione:
Groenlandia
sceneggiatura:
Sydney Sibilia, Armando Festa
fotografia:
Valerio Azzali
scenografie:
Tonino Zera
montaggio:
Gianni Vezzosi
costumi:
Valentina Taviani
musiche:
Michele Braga