Il diciottesimo film di Tim Burton gira continuamente attorno alla tematica identitaria, declinandola in più sfumature, riflettendola sui suoi vari personaggi, analizzandone la molteplicità. D'altronde il cineasta di Burbank ha sempre avuto un occhio di riguardo per figure dall'identità indefinita e cangiante oppure fortemente contrastata, svolgendo un ruolo fondamentale nella codificazione di un immaginario adolescenziale e poi anche infantile divenuto in seguito centrale nella produzione di opere per quel target. Pertanto non è così assurdo arrivare a definire il romanzo di Ransom Riggs da cui la pellicola è tratta una rielaborazione di materia burtoniana che prima o poi avrebbe dovuto interessare il regista americano e la
factory che ormai rappresenta.
Posta la paradossale natura di adattamento di riadattamento di immaginario, "Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali" (ma
peculiar è ovviamente in inglese un termine ben più ricco di sfumature) potrebbe essere considerato come un prodotto esemplare (altro che peculiare) di quello che è divenuto il cinema di Burton nell'ultimo decennio, in virtù del target strettamente adolescenziale, della natura di adattamento piuttosto "fedele" (ma c'è da dire che il regista predilige da sempre la rielaborazione di opere altrui) e per la riesposizione non mediata di quelli che sono i più tipici tratti del suo stile. Se difatti il film in questione inizia, dopo i gradevoli titoli di testa, con un approccio fortemente realistico, similmente a
"Big Eyes", comincia presto a riavvicinarsi a lidi ben più noti, finendo però per capitombolare proprio su quest'ultimi e su una seconda parte che si trasforma in un tripudio di CGI e scarsa coerenza narrativa.
Dopo una prima parte in cui si mescolavano con una discreta coesione tematiche e tratti figurativi tipici del regista americano, un'ambientazione realistica in cui si insinuano pian piano elementi fantastici e una scrittura in fin dei conti discreta (anche grazie al frequente uso del registro grottesco e al cast capitanato dalla mai deludente Eva Green), il secondo segmento mostra la sua debolezza di adattamento letterario con fin troppi strappi nel tessuto narrativo, dialoghi a dir poco basilari e una certa ripetitività nello svilupparsi dell'azione. Oltre alla puerile caratterizzazione degli antagonisti. Ma è proprio a questo punto che l'opera di Burton dimostra la sua vera natura e può quindi trovare un suo posto all'interno del superficialmente schizofrenico percorso del cineasta. Il farsesco e fin troppo umorista "cattivo" (letteralmente, viene definito così) interpretato dal sempre più gigione Samuel L. Jackson è infatti la personificazione stessa di quel che il film (e l'intero cinema di Burton) diviene: una ben conscia autoparodia, all'interno della quale momenti stucchevoli e citazionismo forsennato vengono neutralizzati (almeno in parte) dall'uso del grottesco, rivolto stavolta non solo alla
normalità borghese ma anche al mondo fantastico.
Così facendo la ricerca identitaria del protagonista (la cui soluzione deriva da una
constatazione e non da una mutazione) diviene la ricerca dello stesso film e forse pure del regista, il cui percorso attraverso gli ultimi film può assumere un nuovo significato nella prospettiva critica. Laddove i film successivi all'innovazione di immaginario di
"Big Fish" si dimostravano una mera ripetizione di tratti tematici e visivi ben noti, culminata difatti nel disastroso
"Alice in Wonderland", quasi un emblema degli apici di autoassoluzione raggiunti dal regista di Burbank, le opere che sono seguite hanno cercato, in maniera marginale, di porsi sempre più
a latere del percorso seguito fino a quel momento. Se difatti il giocattolone citazionista
"Dark Shadows" andava alle radici del gusto cinefilo e del
milieu infantile dell'autore,
"Frankenweenie" si era spinto fino ad una delle sue prime creazioni per cercare (vanamente, c'è da dire) nuovi spunti per il proprio cinema. Ma è soprattutto alla luce del mai così realistico "Big Eyes" che il film presente è considerabile una giustapposizione ad un nuovo approccio alla realtà di tutto ciò che è caro al regista.
Infatti il mondo non-fantastico di "Miss Peregrine" non è un corrispettivo fantasioso del nostro reale (come era, ad esempio, in
"Edward Mani di forbice") ma una sua fedele trasposizione che il cineasta americano, conscio di essere "lui stesso" la principale matrice culturale del romanzo che adatta, manipola agevolmente facendolo scontrare con tutti i suoi più cari
dispositivi fantastici. Vi è la nebbia dalla fisica impossibile che rimanda al gotico di "Sleepy Hollow", vi è l'uso cartoonesco della violenza e della fisicità dilaniata ("Mars Attack!"), vi è il ricorso (anche quando in realtà simulato digitalmente) alla
stop motion. E vi è, fra le tante altre cose (il film può rivelarsi un vero e proprio divertimento per i cercatori di citazioni), l'ennesimo
alter ego del regista come protagonista, un
freak che si scopre tale stavolta non al contatto con mondo "normale" ma con quello fantastico. In quest'ottica quello che può sembrare l'ennesimo, estremamente gratuito,
divertissement di un cineasta da anni sul viale del tramonto si rivela invece, oltre al suo più riuscito (per quanto acciaccato) film da un decennio, una necessaria quadratura di quanto creato in trenta e più anni di carriera e una constatazione dell'efficacia di questo immaginario, nonostante la sua usura. Pazienza per la parte finale che fa a pezzi ogni seria riflessione narrativa sulla temporalità (pensando al precedente film da produttore di Burton forse un tema a cui lui si è recentemente legato) e che chiude il film con una delle immagini più banalizzate della storia del cinema. Esso serve a dire che si può sempre ritornare dove già stati, con nuova consapevolezza, normalizzando definitivamente la da sempre centrale tematica dell'individuo (adolescente) non omologato, in passato trattata con ben più tragicità. Stavolta le cose non vanno come continua quella canzone.
"
Everyone I know goes away, in the end"...