Sète, settembre 1994. Primo prologo, brevissimo: Amin realizza il suo sogno di fotografare Ophélie. Secondo prologo, sulla spiaggia, 40 minuti mentre il sole tramonta e si entra nel crepuscolo. Una diciottenne parigina, Marie, che se ne sta a leggere di filosofia e miti greci, viene introdotta da due ragazzi nella compagnia che conosciamo. Poi, il cuore del film: una lunghissima sequenza di quasi tre ore, praticamente in tempo reale, dentro una discoteca. Totale unità di tempo, luogo e azione. Amin – come nel primo film – raggiunge gli amici solo dopo un po’, e balla pochissimo (con Marie). Il suo istinto è quello di restare, incantato, a osservare. Quindi un’ellissi di qualche ora, improvvisa. Infine, un brevissimo epilogo, fulminante, l’indomani mattina.
Al Festival di Cannes 2019 è passato un film che ha provocato forme di rigetto e incomprensione già nel corso della proiezione stampa, con gente che usciva alla chetichella dalla sala. Noi amiamo pensare di aver assistito a qualcosa di simile a quanto accadde il 15 maggio del 1960 con "L’avventura" di Antonioni, incompreso all’epoca da molta critica, mentre la giuria fu in grado di coglierne il valore eccezionale. "Mektoub, My Love: Intermezzo" è per ora il vertice assoluto raggiunto da Kechiche in una graduale maturazione della sua ricerca poetica ed estetica. Un incredibile scavo alla scoperta del contatto più intimo fra cinema e realtà. Un percorso personalissimo che non ha eguali nel panorama cinematografico. Kechiche sta seguendo un impulso genuino, lo si percepisce con potente evidenza: non è una ricerca cerebrale, non è studiata a tavolino. Il suo progressivo approssimarsi alla realtà è coinciso con una continua tensione all’estensione della durata dei suoi film. Una tensione che punta con naturalezza alla coincidenza fra durata del film e durata del racconto, che qui finalmente si realizza. I caratteri di fondo della sua estetica erano già chiari nei primi lavori; poi nel 2013, è venuta "La vita di Adele". Quindi, nel 2017, il passaggio all'autobiografia romanzata, "Mektoub, My Love: Canto Uno". E adesso, questo "Intermezzo", con il lungo trip della sua sezione centrale, accompagnata ininterrottamente dalla musica house. Non un trip lisergico: Kechiche non violenta mai lo sguardo dello spettatore. Niente a che spartire con le provocazioni di un Gaspar Noè ma neanche con quelle di Albert Serra (autore di una forma totalmente opposta di immersione nel reale, affascinante anch'essa ma che non cerca l'immersione sensoriale, proponendogli un'alternativa a tratti insostenibile).
Lav Diaz, con i suoi piani sequenza e i suoi film di lunghezza spropositata, rappresenta l’emblema, nel cinema contemporaneo, dell'immersione dello spettatore in un flusso temporale che tende a far coincidere la durata dell'esperienza filmica con quella della narrazione. Oggi, con l'aristotelica unità di tempo, luogo e azione di "Intermezzo", Kechiche dimostra che l'identificazione totale di tempo filmico e tempo reale, coniugata a una capacità registica inarrivabile di immergere lo spettatore nel reale, non ha bisogno necessariamente di ricorrere al long take o al piano sequenza. Può essere ugualmente potente anche un uso normale del montaggio, dei primi piani o dei campi più lunghi, e anche del controcampo, quando serve. L'uso della camera a mano, quello sì: per mantenere una distanza ravvicinata e una sensorialità tattile, e trattenerci dentro la scena. Si sta letteralmente lì, anche noi in quella discoteca. Un'immersione superiore a quella che permette la stereoscopia. La regia di Kechiche merita lodi sia per la capacità di messa in scena, sia per la direzione degli attori. Bravissimi tutti: immedesimati totalmente nei loro personaggi, rendendo questo film, anche più del capitolo precedente, un'opera che travalica la finzione.
Il film sarà sommerso di critiche perché "viziato", ancor più del precedente, dal "male gaze". Una fascinazione impudica per i corpi femminili, che ridurrebbe la donna a oggetto (secondo alcune stime, le inquadrature dei posteriori femminili supererebbero la metà del montato). Niente di più ingiusto verso Kechiche. Lo sguardo è chiaramente maschile, e il regista si identifica con Amin, il sua alter ego. Ma oltre i corpi ci sono le donne, la loro sensibilità, i loro umori, i loro drammi (tra una danza scatenata e ancora un altro drink, scopriamo che Ophélie, che è incinta di Tony e sta per sposare un altro, vuole abortire; ed è ad Amin che lo rivela). Il desiderio femminile: di vivere, di amare, di godere. Che le donne siano amate da Kechiche non certo solo per la bellezza dei loro corpi, ma per la loro complessità interiore, e quanto diverso sia il loro approccio con il sesso rispetto a quello maschile, lo rivela più di ogni altra cosa il confronto fra la scena in cui Marie balla con i due uomini che l’hanno rimorchiata e ora la molestano, scena in cui è palese il suo disagio, contrapposto alla passionalità con cui in scene successive bacia e carezza Amin, con il quale si crea un'istintiva complicità mentale, intellettuale, erotica.
Una notte in discoteca, la voglia di vita, di passione, di sesso, di divertimento: tutto superficiale? No, è la vita, è la giovinezza. Da un lato però ci sono i maschi, con i loro istinti sessuali impulsivi, dall’altro le donne: tutt’altra faccenda. Amin sta nel mezzo. È l’artista. Osserva. È anche un ragazzo, che sta tentando di vivere e vorrebbe vivere più pienamente, ma sente che la vita sta, sì, nel godimento, ma non si può limitare a quello. Lui le donne le sente sulla pelle. In Amin si racchiude lo sguardo, innamorato delle donne, di tutti i grandi registi uomini che nella storia del Cinema hanno amato profondamente le donne, cercando di sondarne i misteri (Antonioni, Bergman, Fellini... so on). Amin si vede poco, ma resta lui il protagonista. Il finale - aperto ad un altro capitolo - è per lui. Dopo che il film si è mantenuto per quasi tre ore in un unico ambiente, qualcosa di importante ad Amin è successo. Non chissà che, in apparenza, ma si intuisce che quel qualcosa segnerà una cesura nella sua vita. Tutta in ellissi, preparata da quelle tre ore in discoteca, la vicenda più importante del film non la vediamo, ma capiamo perfettamente che sia qualcosa che marcherà una tappa determinante nell’educazione sentimentale di Amin. E anche nella sua educazione alla vita.
Delle parole lasciate su un taccuino. Che non ci è dato leggere. Un profilo femminile riflesso alla finestra. Fuori, il vento asciuga i costumi da bagno stesi. Una pallida luce del giorno. Poi lo schermo nero. Ça va continuer.
cast:
Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Alexia Chardard, Lou Luttiau, Hafsia Herzi, Hugo-Vincent Couturier
regia:
Abdellatif Kechiche
titolo originale:
Mektoub, My Love: Intermezzo
distribuzione:
Pathé
durata:
208'
produzione:
Pathé, Quat'sous
sceneggiatura:
Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix
fotografia:
Marco Graziaplena
scenografie:
Luciano Cammerieri
montaggio:
Edgar Allender, Nathanaëlle Gerbeaux, Maria Giménez Cavallo, Luc Seugé