Hiromasa Yonebayashi, regista di "Mary e il fiore della strega", viene dallo Studio Ghibli, per il quale ha prima lavorato come animatore per alcuni film di Miyazaki (fra i quali "
La città incantata" e "
Ponyo sulla scogliera" - due fra le principali fonti di ispirazione, anche a livello estetico, di questo suo lavoro) e poi realizzato i suoi due precedenti lavori da regista, "
Arrietty - il mondo segreto sotto il pavimento" (2010) e "
Quando c'era Marnie" (2014). Con questo suo terzo film, prodotto dallo Studio Ponoc (che raccoglie un team di animatori tutti provenienti dal Ghibli), si confronta in modo più che mai esplicito con un immaginario miyazakiano, addentrandosi adesso in territori marcatamente
fantasy (termine col quale, semplificando, vogliamo intendere una trama incentrata su una dimensione magica parallela alla realtà). Su questo terreno dà però la sua prova meno felice, proprio come capitò a Makoto Shinkai (regista invece distante, per stile e poetica, dallo Studio Ghibli) quando, con "Il viaggio verso Agartha" (2011), si inoltrò nel
fantasy meritandosi un appellativo, quello di "nuovo Miyazaki", tanto onorevole quanto frutto di un equivoco di fondo. Alla luce anche del percorso che era stato intrapreso dal figlio di Miyazaki stesso, Gorō, che aveva esordito con un
fantasy dall'immaginario marcatamente occidentale - "I racconti di Terramare" (2006) - e di cui risultò più convincente l'opera seconda ("
La collina dei papaveri" del 2011), l'impressione è che, ogni qualvolta l'animazione giapponese si inoltra in territori
fantasy, faccia fatica, da un lato, a sottrarsi - su un piano tematico quanto stilistico - all'influenza dominante del gigante dell'animazione fondatore dello studio Ghibli, e, d'altro canto, che il risultato mai pienamente convincente sia frutto dell'accostarsi a un immaginario pregresso di stampo occidentale, forse adottato proprio nel tentativo di smarcarsi dall'influenza del Maestro. Solamente Miyazaki, sinora, è invece riuscito, nell'ambito dell'animazione giapponese, a declinare il
fantasy in modo davvero personale: i suoi riferimenti all'Europa sono veri e propri omaggi all'architettura, al paesaggio e a figure realmente esistite ("
Porco Rosso"): per il resto, i film di Miyazaki prescindono largamente dai
topos del genere, creando universi assolutamente personali anche laddove c'è una fonte letteraria occidentale ("Il castello errante di Howl").
"Mary e il fiore della strega" è tratto, come "Quando c'era Marnie", da un racconto britannico per l'infanzia (nel caso del film precedente, la fonte letteraria era il libro omonimo di Joan G. Robinson del 1967; in questo caso si tratta de "La piccola scopa", di Mary Stewart, 1971). L'opera terza di Yonebayashi risente in maniera considerevole della tradizione anglosassone (le scuole per apprendisti maghi, come nella saga di Harry Potter...), proprio nel momento in cui sceglie, sul piano figurativo, l'omaggio esplicito a Miyazaki. Qualche esempio: l'assunzione di forme marine (simili a calamari) da parte di alcune creature che sembrano uscire direttamente da "Ponyo"; oppure mezzi di trasporto aerei con ali ronzanti, questi ultimi davvero tipici della fantasia di Miyazaki. Del resto l'influenza del Maestro è presente a livello davvero basilare, e non tanto perché Mary si trasforma presto in una streghetta accompagnata da un gatto nero, che vola su una scopa esattamente come Kiki nel film del 1990, quanto soprattutto per una vicenda tesa alla liberazione di un coetaneo prigioniero di una potente maga: lo stesso rapporto tra Chihiro e Haku ne "La città incantata". A un livello più profondo, una tematica centrale nel film, quella della mutazione, è stata anch'essa affrontata da Miyazaki, soprattutto nel capolavoro del 2002, peraltro in modo più complesso e affascinante.
D'altra parte, Yonebayashi ha collaborato direttamente alla creazione di alcuni dei capolavori del suo maestro e sarebbe ingiusto additare tutto ciò come un difetto dell'opera, anche se è inevitabile ne costituisca un limite. Occorre però riconoscere che "Mary e il fiore della strega" rimane un film pregevole e di alta qualità, e costituisce una validissima alternativa all'80% almeno dell'animazione statunitense, soprattutto per il pubblico più giovane che non è poi così interessato ad ascendenze e derivazioni. E il messaggio di fondo, anche se rischia di lasciare interdetto il pubblico infantile - "La magia non ci serve!" - costituisce l'aspetto più originale del film, facendo della magia l'equivalente fantastico dei pericoli insiti negli eccessi della scienza, quando con tracotanza va contro la natura. In "Mary e il fiore della strega" la magia è il contraltare immaginario della vivisezione, e più in generale della sperimentazione scientifica condotta senza scrupoli. La prima visita di Mary all'università per apprendisti maghi mescola subito il meraviglioso con un'inquietudine sinistra: nel volgere di poco, sarà la seconda componente a prevalere. Di buono c'è quindi che Yonebayashi declina in modo insospettabile il divario fra natura e civilizzazione - tema centrale, ancora una volta, nell'universo miyazakiano. Peccato, però, che semplifichi la faccenda in modo un po' manicheo, perdendo la suggestione della duplicità che i film del Maestro sanno mirabilmente rappresentare come sussistente in ogni fenomeno e in ogni personaggio. Così, laddove nei film di Miyazaki quasi non esistono esseri totalmente malvagi, e anche le creature buone nascondono lati oscuri, qui tutto appare progressivamente netto, distinto, bianco o nero. In definitiva è proprio questo il debito più grande che il film ha nei confronti di un modo di guardare e di pensare occidentale. Al netto di queste considerazioni, ribadiamo che il lavoro di animazione è formalmente eccellente sotto tutti i profili, e non manca di stupire e affascinare, confermando l'elevata professionalità acquisita da Yonebayashi presso la Ghibli già in mostra nei suoi precedenti lavori.
14/06/2018