Un misterioso virus ha eliminato la quasi totalità della popolazione femminile. In un mondo allo sbando, un padre (Casey Affleck) lotta per salvare la propria figlia (Anna Pniowsky), rimasta misteriosamente immune.
Seconda volta dietro la macchina da presa per Casey Affleck, attore di grande talento che negli ultimi tempi è riuscito, dopo anni di militanza a Hollywood, a svincolarsi dalla definizione di fratello minore del divo Ben (vedi il meritato Oscar conquistato per l’indimenticabile “Manchester by the sea”). La prima esperienza come regista era stata invece l’inclassificabile “I’m still here” (2011), mockumentary con protagonista l’amico di una vita e attore del momento per “Joker”: Joaquin Phoenix. Per quanto nulla accomuni quel film a “Light of my life”, l’invisibile filo della cronaca sembra inesorabilmente collegare queste due esperienze: il riferimento è naturalmente alle note accuse di due sue ex collaboratrici che, a seguito di presunte scorrettezze subite su quel set per mano di Affleck, hanno travolto il talentuoso interprete nell’epoca del MeToo, segnando un’inaspetta battuta d’arresto nella sua ascesa a grande star.
Senza mai riferirsi a quegli episodi, Casey Affleck ha invece dichiarato che “Light of my life” trae la sua ispirazione da e riflette la sua esperienza di padre, ma non serve troppa malizia per leggere in questa operazione femminista un tentativo di riabilitazione agli occhi dell’opinione pubblica, che per evitare ogni imbarazzo lo aveva condannato in partenza (si pensi alla sua esclusione dalle premiazioni dell’Academy).
A prescindere da quali siano i reali intenti, “Light of my life” si dimostra un film solido ed essenziale. In sede di sceneggiatura Affleck opta per ridurre al minimo gli elementi di contorno alla storia principale: la sua descrizione del virus apocalittico e del mondo che ne è derivato è scarna e semplice (scelta che si riflette visivamente in una regia piuttosto statica, “gelata” dalla fotografia di Adam Arkapaw), del tutto disinteressata ad indagare le implicazioni socio-politiche del disastro che mette in scena. Affleck evita cioè ogni concessione a prospettive diverse come invece, al polo opposto, faceva l'altmaniano "Contagion" di Soderbergh. L’unico interesse è discutere il rapporto tra padre e figlia, approfondirne le dinamiche affettive basilari e mostrarne la costruzione elaborata e tenera. I dialoghi quotidiani tra i due (bravi) protagonisti sono probabilmente le scene più emozionanti del film: nella prima scena, in cui Affleck racconta alla figlia una storia di fantasia basata sull’Arca di Noè, il sorriso con cui quest’ultima ricambia gli sforzi del padre riflette non solo il divertimento che trae dal racconto ma, piuttosto, la sentita riconoscenza per l’applicazione del genitore. L’educazione e la crescita sono faticose, presuppongono una complessità e un apprendimento che diviene bilaterale (Affleck studia in una biblioteca un volume sulla genitorialità), sollevando emozionalmente le sorti di alcuni momenti. Non sfuggono poi echi all’attualità: infatti è evidente come gli uomini malvagi che danno la caccia alla giovane non siano altro che la metafora dei frequenti femminicidi che segnano le fortune della cronaca nera.
Se si guarda a “Light of my life” come film di genere il risultato è sicuramente meno esaltante e sconta più di un debito nei confronti di precedecessori quali “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e soprattutto “The Road” di John Hillcoat (invero, Affleck non ha mai nascosto l’ammirazione che nutre per l’opera di Cormac McCarthy, autore del romanzo da cui fu tratto il film). Se da un lato è vero che la rinuncia ad approfondire le dinamiche di cui sopra aiuta a focalizzarsi sul cuore emotivo del racconto, dall’altro rende l’opera meno complessa e poco sviluppata, aspetto che viene ulteriormente enfatizzato dall’arco temporale ridotto in cui le vicende hanno luogo. Al respiro hollywoodiano delle avventure e alla loro spettacolarità, Casey preferisce un intimismo vicino ai primi lavori del fratello maggiore Ben (come “Gone Baby Gone”): una scelta che talvolta si traduce in un’eccessiva lentezza e una staticità che non giustifica la durata del film.
Nel complesso quindi, la prima opera drammatica di Casey Affleck mostra il solito grande interprete e un regista che non lascia nulla al superfluo per concedersi interamente ai suoi protagonisti.
cast:
Casey Affleck, Elisabeth Moss, Anna Pniowsky
regia:
Casey Affleck
distribuzione:
Notorius Pictures
durata:
119'
produzione:
Teddy Schwarzman
sceneggiatura:
Casey Affleck
fotografia:
Adam Arkapaw
scenografie:
Sara K. White
montaggio:
Christopher Tellefsen
costumi:
Malgosia Turzanska
musiche:
Daniel Hart