Ondacinema

recensione di Diego Capuano
7.0/10

Realisticamente parlando, su un piano audiovisivo tutto è stato già visto e asserire che un film contemporaneo  possa realmente somigliare a nulla che sia stato già realizzato è un indiscutibile azzardo. Se nel corso della corrente stagione l'unico scossone di "non visto" è il vecchio/nuovo David Lynch televisivo, tutto sembra ridursi ad un sunto: se la novità non ci giunge da piani alti come nel caso appena menzionato tutto sta nella combinazione di elementi disparati.
Non che un cinema contemplativo e/o basato sulla mera composizione dell'immagine sia garanzia di fascino e novità ed, anzi, oggi l'estetismo contemplativo  è uno specchietto per le allodole per accaparrarsi selezioni festivaliere o facili entusiasmi di giovani frange cinefile. Tra videoartisti o immaginari visivi non lontani da ideali forme di videoinstallazioni la combinazione di suggestioni che si vogliono tardi epigoni del surrealismo che fu si scontra con la mancanza di idee, ingegni, meccanismi cinematografici, per l'appunto.

Il francese Bertrand Mandico gioca innanzitutto con onestà, mettendo in luce con assoluta chiarezza le proprie innumerevoli fonti, tanto da renderle esplicite sia nelle interviste rilasciate quanto, soprattutto, all'interno della propria opera. E modella sapientemente i riferimenti trasfigurandoli secondo una visione d'intenti che sa essere personale e, di conseguenza, meritevole di considerazione e apprezzamento. Riesce, dunque, a creare un mondo originale e, pur figlio di correnti artistiche e numi tutelari del passato, a suo modo somigliante a poco altro.
Parlando genericamente di tardo-surrealismo, non vi è dubbio che risulta rischioso il passo dai precedenti cortometraggi (più il mediometraggio "Boro in the Box") al debutto sulla lunga distanza. L'effetto dell'idea, della singola trovata, del folgorante fotogramma, corre il rischio di disperdersi nel mare magnum della storia, di pilastri narrativi che in questo caso mettono i paletti addirittura nelle pagine di Robert Louis Stevenson (tanto "L'isola del tesoro" quanto "Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde"), ma anche in quelle di William S. Burroughs, anche se il film non è però una trasposizione del suo "The Wild Boys".

"Les garçons sauvages" immerge il proprio corpus nel mare dell'avventura marinaresca; ed ecco esattamente dove va posizionata la base inattuale del film. In un contesto che guarda negli occhi "Ciclone sulla Giamaica" di Alexander Mackendrick o "Il covo dei contrabbandieri" di Fritz Lang in una premessa che si delinea con il motto di "l'avventura è l'avventura", dove lo spirito allora sa che gode di libertà di movimento. Legando peripezie che si vogliono fuori dal tempo con fraseggi e azzardi calati nelle possibilità offerte dal cinema di oggi, nutrito e da nutrire con le più disparate fonti. E, allora, se il conduttore spirituale di Mandico è Walerian Borowczyk, in "Le garcon sauvages" vi è una trasfigurazione complice ma diversificata di "Goto, l'isola dell'amore". Territoritori geografici e di cinema non allineato, dove autore e personaggi vogliono rifugiarsi altrove portando con sé gli istinti bassi e indicibili, nascosti e repressi. Ancora scandalosi. E quindi ecco Jean Genet, la liberazione sessuale attraverso una fatale esposizione del corpo, il trionfo dell'organo (il pene dal marinaio tatuato da esperienze di vita come il corpo di père Jules di Michel Simon - blasfema citazione da "L'Atalante" di Jean Vigo) ma anche del composto organico, liberazione ma anche limite dell'atto corporeo (la sostanza vischiosa che imprigiona tra gli alberi i personaggi).

Come in "Querelle" di Genet/Fassbinder - notare un vistoso simbolo fallico che attracca le imbarcazioni - il marinaio è quindi una entità omoerotica, ma Mandico vuole andare oltre e la confusione dei generi e la possibilità di una deriva diviene man mano vera degenerazione, tanto che il sopraffattore sarà il sopraffatto. In tal senso l'avventura marittima non trova nella scoperta di un tesoro la propria abitudinaria meta: i personaggi di "Les garçons sauvages" attraversano la frontiera fino ad una radicale mutazione del corpo. C'è la volonta di servirsi del cinema come possibilità di superare i limiti materiali con un' andatura ed uno sviluppo che, incastrati in un impianto antinaturalistico, abbiano la possibilità di trovare una propria verosomiglianza fantastica. La pellicola, allora, come corpo mutante che tutto vuol mettere in discussione non si ferma davanti a nulla, rompendo gli argini del bianco e nero con squarci di colori elettrici che sarebbero piaciuti a Kenneth Anger e a Shūji Terayama.

Il film di Mandico è sovraccarico di simboli e metafore, tanto che spontaneo sorge il dubbio: cose, oggetti e situazioni non prevalgono sulla storia fino a generare la stessa? Certo, il film non possiede quella ipnotica stasi che intenti e visionarietà sfrontate richiederebbero e la navigazione non riesce del tutto a scansare i limiti della prolissità che rischiano di rendere intermittente il coinvolgimento. Però le pennellate di Mandico sono davvero impronte che sanno sporcarsi di un immaginario che riesce ad andare oltre la facile provocazione.


08/11/2017

Cast e credits

cast:
Pauline Lorillard, Vimala Pons, Diane Rouxel, Anael Snoek, Mathilde Warnier, Sam Louwyck, Elina Löwenson, Nathalie Richard


regia:
Bertrand Mandico


titolo originale:
Les garçons sauvages


durata:
111'


produzione:
Ecce Films


sceneggiatura:
Bertrand Mandico


fotografia:
Pascale Granel


montaggio:
Laure Saint Marc


costumi:
Sarah Topalian


musiche:
Pierre Desprats, Hekla Magnusdottir


Trama
All’inizio del XX secolo, sull’isola de La Réunion, cinque adolescenti di buona famiglia, appassionati di scienze occulte, commettono un feroce crimine. Un capitano olandese se ne prende carico e li costringe ad una crociera di rieducazione a bordo di un vascello fatiscente e spettrale. Sfiniti dai metodi del capitano, i cinque ragazzi pianificano l’ammutinamento. La loro meta è un’isola sovrannaturale dalla vegetazione lussureggiante che cela un segreto sconvolgente.