Come può un film raccontare il trapasso di uno dei geni della letteratura mondiale fiorito negli anni in cui l’Italia si trovava sotto il cono d’ombra del fascismo, rimanendo equidistante tanto dal rigore filologico quanto dalla trita banalità? È un interrogativo e al contempo una sfida cui non si è sottratto Paolo Taviani. E la risposta data dal novantenne regista toscano è stata azzeccata, ovvero quella di battere la strada dell’ironia, della leggerezza e a tratti perfino dello sberleffo. Ebbene sì, perché a teatro, e non va dimenticato che Luigi Pirandello fu essenzialmente un drammaturgo, omnia licent. Ma della morte di Pirandello, che cosa che non fosse stato ancora detto sui manuali o mostrato sul grande schermo poteva avere la pretesa di costituire il soggetto di un film? Tutto ciò che di paradossale e straniante accadde dopo la morte del drammaturgo.
Dal punto di vista della sceneggiatura, Paolo Taviani è molto abile nel dare coesione a tre distinte linee narrative che emergono carsicamente nell’ordito filmico. La prima è quella del viaggio del delegato del comune di Agrigento (Fabrizio Ferracane) che, 15 anni dopo la morte di Pirandello, viene incaricato di traslarne le ceneri da Roma in Sicilia. La seconda è quella che nel corso del viaggio ripercorre con immagini di repertorio o sequenze di film una serie di episodi di indubbio spessore storico-culturale a cavallo della seconda guerra mondiale. La terza è costituita dalla trasposizione cinematografica dell’ultima novella di Pirandello, intitolata "Il chiodo". Nonostante le tre linee narrative siano così eterogenee, anche in fatto di fotografia, esse sono ben connesse per lo spirito pirandelliano che aleggia sull’intera trama. Il drammaturgo, in sostanza, è sì defunto, ma il dipanarsi delle vicende successive alla sua fine è narrato facendo leva su aspetti paradossali della vita tipici della riflessione pirandelliana.
A ben vedere, già il fatto che le immagini di repertorio d'apertura del film, dedicate alla cerimonia di consegna del Nobel nel 1934, si chiudano con un “non mi sono mai sentito tanto triste e tanto solo” in voice over, sospinge inevitabilmente lo spettatore sul terreno del paradosso, della falsa apparenza, del relativismo: l’apice della gloria coincide in realtà con l’abisso dell’autostima e della felicità interiore. Il film è appena iniziato e la fatuità degli onori, della celebrità e del successo mondano appaiono come le ragioni della profonda inquietudine borghese tra le due guerre. Ed è proprio rifuggendo da tale fatuità che Pirandello prescrisse per se esequie all’insegna di una semplicità che potremmo definire francescana. Di seguito, in una scenografia eterea e minimalista al punto che il candore della stanza in cui è allettato impedisce letteralmente di distinguere dove finisca il pavimento e dove inizino le pareti, un moribondo Pirandello riflette sul trascorrere del tempo e riceve i figli al suo capezzale. Si tratta di una sequenza importante e, vuoi per l’atmosfera, vuoi per il regime narrativo debole, l’accostamento a quella dell’ultima parte di "2001: Odissea nello spazio" (1968) è immediato. La tematica è quella del tempo che scorre più lento eppure più veloce della nostra capacità di percepirne il fluire, ma mentre la riflessione di Stanley Kubrick è proiettata verso il futuro, quella del regista italiano guarda al passato.
Anche nelle crude immagini di repertorio della seconda linea narrativa lo spirito di Pirandello aleggia pur in assenza del drammaturgo. Dominano qui il relativismo e il conformismo come malattie della società borghese, come maschere sociali e precario salvacondotto verso il domani: chi prima, con l’avvallo del regime, torturava è ora condotto alla gogna, mentre chi veniva condannato si prende la rivincita sugli intoccabili (es.: il questore di Roma). Altrettanto efficace è l’inserzione di una significativa sequenza tratta da "Il sole sorge ancora" (1946) di Aldo Vergano, caposaldo del neorealismo, opportuno tassello nel lungo percorso a ritroso del treno (della memoria) che trasporta in Sicilia le ceneri di Pirandello. Un treno diventato quinta teatrale del paradosso, del grottesco: sparisce momentaneamente la cassa contenente l’urna perché dei giocatori di carte la improvvisano come tavolo per una partita a tresette, “col morto”, dice uno. E poi altre immagini di repertorio: Toscanini e De Gasperi a New York. Il peso del passato può far capolino anche dai finestrini del treno: una fuggevole inquadratura mostra Montecassino. I paradossi, le convenzioni e le maschere sociali emergono anche una volta che l’urna giunge ad Agrigento. Un alto prelato, infatti, prima si mostra scettico sull’opportunità di benedire un’urna greca e poi confessa di aver letto e apprezzato Pirandello (anche se di nascosto), nella gioventù di seminarista. In "Leonora addio" la storia si reifica soprattutto attraverso le immagini, mentre è nelle situazioni, nelle relazioni sociali, anche quelle più banali, che emergono le tare comportamentali, le manie, le superstizioni, verrebbe da dire, come ad esempio nell’episodio che precede il decollo dell’aereo con a bordo l’urna di Pirandello. Riferimenti alle manie che vengono a galla a volte velatamente, a volte fin troppo palesemente, come nel caso di Bastianeddu che gioca a fare la carriola afferrando il cane per le zampe posteriori; il riferimento è appunto alla novella "La carriola". Sebbene dunque fisicamente defunto, giacchè le convenzioni sociali su cui aveva puntato il dito vengono agìte dai personaggi della pellicola, è come se lo scrittore siciliano fosse in realtà ancora vivo.
Quanto alla terza linea narrativa, l’unica interamente a colori, essa vuole essere, nei propositi del regista, un omaggio a "Il chiodo", l’ultima novella di Pirandello. Un racconto truce, dal sapore quasi verista, che nel film appare in realtà edulcorato, quasi a mitigare il profondo pessimismo del drammaturgo pochi giorni prima della sua morte. Il colore rende più vivida la narrazione e la distingue più marcatamente dal bianco e nero del resto del film, soprattutto dai chiaroscuri che predominano nelle sequenze del viaggio in treno. Recentemente un altro regista (Gianluca Jodice) è tornato sulla vita di un altro importante poeta e drammaturgo del 900, Gabriele D’Annunzio, con "Il cattivo poeta". Pellicole profondamente diverse già nelle scelte di messa in scena, poiché D’Annunzio, vivente, è in sostanza prigioniero nel suo mausoleo dorato e da lì stenta a far sentire la propria voce, mentre Pirandello, pur defunto, è più che mai vivo nelle azioni e nelle parole degli altri personaggi.
cast:
Massimo Popolizio, Jessica Piccolo Valerani, Claudio Bigagli, Martina Catalfamo, Francis Pardeilhan, Matteo Pittiruti, Fabrizio Ferracane, Sinne Mutsaers
regia:
Paolo Taviani
titolo originale:
Leonora addio
distribuzione:
01Distribution
durata:
90'
produzione:
Stemal Entertainment, Cinemaundici, RAI Cinema
sceneggiatura:
Paolo Taviani
fotografia:
Paolo Carnera, Simone Zampagni
scenografie:
Emita Frigato
montaggio:
Roberto Perpignani
costumi:
Lina Nerli Taviani
musiche:
Nicola Piovani