Racconta Michael Sragow, in un articolo apparso su Film Comment [1], che Peter O'Toole prese a modello la figura di David Lean per recitare il ruolo del regista nello stravagante "Professione pericolo" di Richard Rush. Non parrebbe, in sé, un confronto troppo lusinghiero. Nell'interpretazione di O'Toole prende corpo un personaggio eccentrico, esaltato dal proprio potere creativo e, tutto sommato, non distante dall'immagine che si potrebbe avere di una divinità capricciosa. A dispetto del retaggio epico del regista-tiranno che fa accadere le cose allo scopo di filmarle - nonché della deformazione grottesca insita in un simile ritratto - una possibile filiazione è certo da ammettere. Non dubitiamo, in fondo, che l'esperienza di O'Toole sul set di "Lawrence d'Arabia" sia stata segnante, se appena due anni dopo confesserà a Oriana Fallaci di non poter più soffrire la visione del film e di aver l'abitudine di svicolare dalla sala, durante le proiezioni, al primo calar di luci [2]. Cosa rimane, allora, del molto inglese David Lean nell'interpretazione concitata di O'Toole? L'impressione di un gesto registico fuori norma e la misurata inquietudine di chi è pronto a rischiare tutto per una fantasia impossibile.
"Lawrence d'Arabia" è questa fantasia, il parto di una immaginazione illimitata, l'esito di un'avventura che intrappolò il regista e la sua troupe per quindici mesi nel deserto del Wadi Rum al fine di catturare dal vero il lavorio del vento sulla sabbia, lo spiare improvviso di un'alba al limitare della rena o il tremolio di uno sfondo arso dalla calura.
Nella vicenda del tenente T. E. Lawrence, che ispirò e condusse la rivolta araba in Medio Oriente al tempo del primo conflitto mondiale, Lean indovina quella miracolosa congiunzione di storia e leggenda, che gli permetterà, in una vertiginosa messa in discussione di se stesso e del proprio cinema, di costruire una liberissima epica dello sguardo, in cui la perfetta leggibilità del fotogramma leaniano si volge in impreviste ambiguità e l'ordine logico dei fatti conduce all'arabesco.
Ellissi e icone"Breve incontro" inizia e finisce con un treno; nel mezzo un lungo flashback si allarga per tutto il film e chiude in cerchio una narrazione, di cui conosciamo già l'esito. Similmente "Lawrence d'Arabia" trae avvio dalle esequie del protagonista e ingabbia il procedere dell'azione nelle maglie di un racconto ormai concluso. Che due tra i maggiori esiti dell'opera leaniana condividano un'articolazione retrospettiva dello sguardo consente di indovinare la qualità distintiva del suo cinema: la malinconia tragica. Il dramma di Celia Johnson è, in fondo, quello di un fatalità irrinunciabile, che, nelle sembianze di un'amica invadente, interviene a sottrarle gli ultimi istanti con l'amato Trevor Howard, a correggere la direzione di un racconto che vorremmo differente, pur conoscendone la conclusione. Con questo artificio Lean ci lega alla tragicità dei suoi protagonisti, sui quali il destino non interviene, ma si abbatte, sino a frustrarne le fantasie vitalistiche. Lawrence, dal canto suo, finirà col giustiziare l'arabo, cui aveva salvato la vita con una scelta folle e avventata, ribellandosi a quel che per lui sembrava già scritto; ancora una volta la sortita di una forza immateriale ricondurrà bruscamente la storia lungo i binari per esso costruiti.
Ciò, però, che più stupisce nell'articolazione di un racconto, che, per durata e ambizioni, parrebbe pronto a sfaldarsi in una proliferazione di sottotrame e caratteri discontinui, è la sua concentrazione. In ciò i meriti vanno divisi tra la regia di Lean e la scrittura di Robert Bolt, uomo di teatro e per questo capace di un'estrema sintesi drammatica. Di essa troviamo traccia nel procedere rigoroso delle battute, in quell'ordito di parole che dicono continuamente qualcosa, quasi la storia e i suoi rimandi e le allusioni fossero stati compendiati in brevi sentenze dal forte valore allusivo. In questo modo il film assume su di sé il corpo di una dialettica rigorosissima, nel suo procedere per funzioni logiche e retoriche, e tale da amplificare il valore enunciativo e il potere evocativo delle immagini. Nel procedere di riflessi tra lo sguardo e la parola riconosciamo il segno più alto della maturità del regista, che sceglie di amplificare a dismisura il volume semantico ed espressivo dell'immagine per tendere a un principio di assoluta leggibilità figurativa. I fotogrammi di Lean dicono ben più dei comuni modelli di enunciazione e in questo strettissimo dialogo tra valori figurativi ed espressione verbale indovinano una sintesi tipica delle icone, che, nei luoghi di culto, scandiscono in brevi scene e regolari didascalie le vite dei santi e dei profeti.
Del contributo di Lean al procedere senza concrezioni del racconto, vorremmo dire prendendo a esempio la più celebre immagine del film. Ricevuto l'incarico di valutare le intenzioni dell'Emiro Feysal, Lawrence conversa con Mr. Dryden, consulente diplomatico dei britannici, il quale, colta negli occhi del tenente una scintilla di fascino all'idea di attraversare il deserto, lo rimprovera, ricordandogli che per gli uomini comuni esso non è altro che una tremenda fornace. Lawrence, allora, accende un fiammifero. Per un attimo crediamo di assistere al consueto gioco di abilità - spegnere il cerino tra l'indice e il pollice - con cui lo abbiamo visto stupire i suoi commilitoni ("Il trucco è non pensare che fa male"); invece vi soffia sopra e in quell'istante la regia stacca su una distesa di sabbia rossa, sul cui limitare un sole ardente è pronto a far capolino. In questo taglio di montaggio - gemello del più celebre osso/astronave
kubrickiano - Lean salda, con geniale economia di mezzi, uno spazio fisico e uno dell'immaginazione. Sebbene le indicazioni dello script recassero originariamente la dicitura
dissolve, Lean cambiò idea dopo che la montatrice Anne Coats gli mostrò quel che oltreoceano la
Nouvelle Vague andava sperimentando ("Chabrol e quel genere di cose"
[3]). Pur non condividendo gli assunti formali e l'anarchia nella costruzione del racconto dei giovani turchi
[4], l'entusiasmo del regista per quella grammatica nuova e liberissima fu tale che in breve
dissolve divenne
cut to, regalandoci uno dei momenti più alti della storia del cinema.
Allo stesso modo in cui l'osso gettato dal primate cessa le proprie piroette e, mutato in astronave, lascia in noi l'impressione di non essere mai giunto a terra, il fiammifero di Lean, riacceso dal fuoco di un'alba nel deserto, ci illude di non essersi mai spento. L'ellissi di "
2001: Odissea nello spazio" è temporale e mentale, quella di "Lawrence d'Arabia" si allarga nello spazio e nell'immaginazione e ci proietta in un mondo che l'occhio di Lean trasfigura in forma quasi fantascientifica. Quelle dune livellate dal lavorio del vento, quelle rocce alzate come bastioni su un orizzonte sterminato, quei crateri di sabbia scolpiti dai chiaroscuri paiono i correlativi di un orizzonte alieno, in cui mai prima d'ora il cinema aveva saputo affondare lo sguardo.
Un ritratto del genioVolendo ordinare il grumo di impressioni che il Lawrence di O'Toole produce in noi sin dalla sua apparizione nell'ufficio del cartografo militare, diremmo che la sua peculiarità sia l'irriducibile magnetismo di una mente insolita e stravagante. In un mondo di soldati efficienti e ligi agli ordini, egli appare insolitamente quieto, goffo e bizzarro, di quella singolarità destinata a imbarazzare la formalità dei propri interlocutori. Al generale che in sua presenza si interroga se sia un ribelle o solo un citrullo risponde di avere anch'egli i suoi problemi. L'intero colloquio è emblematico dell'irriducibilità di Lawrence a ciò che è prosaico. Se i due paiono incapaci di comunicare è perché il loro dialogo non si svolge sullo stesso piano e i loro pensieri - o, ancor più, la loro immaginazione - non collimano. Nel breve spazio di alcuni totali, in cui Lawrence incede con andatura dinoccolata, in spregio (pur involontario) del passo marziale, e di pochi piani ravvicinati che accostano al nostro orecchio il sussurro della sua voce flebile e gentile, Lean accorda al proprio eroe un'intelligenza lievemente inferiore al normale e una immaginazione vasta al punto che non ci meraviglieremmo di vederlo camminare leggero su uno specchio d'acqua, se solo egli se ne credesse capace. Dei molti protagonisti che affollano la cinematografia di Lean, Lawrence è l'unico capace di inventare se stesso, perché è il solo dotato di una immaginazione sufficientemente ampia - degli altri si potrà dire, al più, che sono immaginati, salvo, forse, il colonnello Nicholson de "Il ponte sul fiume Kwai", la cui immaginazione rivaleggia con quella di Lawrence.
Seppure divenuto un vessillo della rivolta, capace di radunare nel proprio nome le armate mercenarie sparse sul suolo arabo, il Lawrence di O'Toole non è propriamente dotato di carisma. Vorremmo dire di lui quel che Harold Bloom scrisse della Cleopatra di Shakespeare, che è a tal punto istrionico e narcisista che la sua apoteosi carismatica stenta a convincerci. Al culmine del proprio successo personale, Lawrence vede disperdersi le tribù, ormai saziate dal bottino delle scorrerie, e quando il neonato Consiglio Arabo sta per sfaldarsi, si dimostra incapace di reggerne le fila. Da qui la sua condanna: che la vita sia sempre un passo indietro rispetto alla sua immaginazione, che è a tal punto totalizzante da costringere lo schermo ad aprirsi, a stirarsi con violenza in un formato panoramico. L'inquadratura di "Lawrence d'Arabia" è tanto larga e profonda che sembra voler "comprendere anche il proprio fuoricampo" [5]; come il suo protagonista eccede lo schermo per virtù di immaginazione. Mentre noi lo osserviamo spegnere un fiammifero, Lawrence già vede se stesso intento a vagare per le dune di un oceano di sabbia; mentre lo ascoltiamo perorare la folle causa di un attacco via terra alla città di Aqaba, egli già si vede conquistatore. Più di una volta Lean ferma la macchina sugli occhi di Lawrence, quasi a cercarvi le qualità di un augure, mentre attorno tutto è immobile, se non la rena mossa dal vento.
Sebbene tutti posseggano, pur differente per grado, un'immaginazione prolettica, quella di Lawrence è assoluta: egli agisce solo dopo essersi visto dall'altra parte, quando l'esperienza è conclusa o il crimine commesso; si intende, quindi, il poco valore che un richiamo al buon senso possa avere per un veggente. Alla guida di un esercito di fuorilegge, barbari e mercenari, Lawrence si getta - contro il parere del saggio Sharif Alì - all'attacco di una brigata turca in ritirata; lo ritroveremo, dopo l'assalto, intriso di polvere e sangue, con gli occhi confusi da un'ipotesi di follia. In due riprese Lean vi si sofferma, scoprendo, nel momento in cui Lawrence si riconosce autore del massacro, l'orrore che l'immaginazione prova per se stessa.
Ne "Il ponte sul fiume Kwai" il colonnello Nicholson muore in uno squarcio di lucidità; vede la propria follia, ma non ha il tempo di riconoscerla. Desiderando sfuggire alle secche di un lieto fine, David Lean fa accasciare sul detonatore il colonnello morente e induce un senso di liberazione in noi, che abbiamo assistito per quasi tre ore al protrarsi di quella nobile follia. Il ponte, infine, salta per aria, assolvendo il film dalla duplice assurdità, di produzione e sceneggiatura, rilevata da André Bazin in un articolo apparso sui Cahiers du Cinéma [6] - che il ponte non fosse veramente distrutto e che anche all'inferno il colonnello perseverasse nella propria insensatezza. In "Lawrence d'Arabia" non vi è una liberazione altrettanto significativa; qui l'immaginazione diventa una fantasmagoria allucinata appena prima di conoscere il proprio fallimento.
Drammaturgia dello sguardoCosa vi è al cuore di "Lawrence d'Arabia"? Non il fascino di un melodramma epico, né le prodezze di imprese guerresche. Crediamo, invece, vi sia un'immagine o, meglio, l'idea di una sua possibilità: su un panorama dipinto a larghe fasce orizzontali, che sfumano, tremando, le une nelle altre come in un olio di Rothko, si leva una figura, un breve scarabocchio che infrange d'un tratto la monocromia del cielo. David Lean deve aver presentito la forza di una simile scena, con l'occhio dello spettatore intento a scrutare, assieme ai personaggi, il controcampo sullo schermo panoramico, a forzare la vista in quella che Mario Sesti ha definito "la pura drammaturgia dello sguardo, la pulsione del vedere senza limiti e di scoprire, capire e sentire il reale attraverso l'atto del vedere" [7]. Ed ecco lo stupendo paradosso di un film, che, nell'istante in cui apre lo sguardo alla sua massima estensione, ne denuncia la vaghezza irriducibile, come se lo sforzo per decifrare un'illusione fosse l'inderogabile pegno di una visione illimitata. In questa sorta di principio di indeterminazione dello sguardo, Lean duplica l'ambiguità di un'architettura filmica, che, tendendo, come visto, all'espressione del più alto contenuto informativo, moltiplica oltremisura la leggibilità delle immagini, sino alla bizzarria di un protagonista sempre esplicito nei proferimenti, che sfugge a qualunque catalogazione, se non quella che egli stesso inventa per sé di volta in volta.
Vi sono, fra tutti, due momenti in cui si legge questa tensione dell'immagine verso una profondità illimitata: il ritorno di Lawrence con l'arabo caduto - che bene esemplifica lo sforzo del vedere, di cui si è detto - e, soprattutto, la memorabile apparizione dello Sharif Alì. In uno scenario brullo, col grigio della terra a sfumare per campiture progressive nel blu del cielo, Lean accompagna con una panoramica il passo di Lawrence, che misura la distanza tra il pozzo, dov'è la sua guida, e una cunetta sulla sinistra dell'inquadratura, di fatto tracciando i primi due vertici di un triangolo visivo. Man mano che la scena procede, l'atmosfera si fa astratta; lo scrosciare dell'acqua nel pozzo viene d'un tratto esiliato dalla percezione, precipitando lo spettatore nella tensione innaturale di un silenzio vuoto, rotto appena dal motivetto fischiato dal tenente. Sebbene il vento lasci traccia negli abiti gonfiati e nei capelli mossi, non ne udiamo il fruscio. Il tonfo liquido di una borraccia cascata nel pozzo richiama l'assorto Lawrence dalle sue meditazioni e noi con lui, ma questa irruzione sonora, anziché restituire alla scena un'impressione di realtà, ne rimarca l'afflato spettrale, come un colpo di tosse in un teatro abbandonato. L'immagine successiva lascia Lawrence e la guida agli angoli del quadro e completa il triangolo, introducendo il terzo vertice: un punto all'orizzonte, che si avvicina - o, almeno, ci induce a crederlo. La sequela dei successivi campi/controcampi, disegna, in un silenzio rappreso, i contorni tremolanti di quel punto, sino a farne una figura nera a dorso di cammello. Nello spazio di due minuti assistiamo al prodursi di un'immagine come dal nulla, dal fondo di un abisso, in questo agevolati dalla regia di Lean, che sceglie per noi il punto di vista migliore e ci lascia condividere coi suoi protagonisti il miracolo di una visione smisurata.
Aperta dal suono amplificato di una borraccia precipitata in acqua, la scena si chiude con uno sparo, un secondo fragore che isola l'episodio in un bozzolo d'irreale silenzio e soddisfa, col ricorso a una simmetria, l'urgenza di equilibrio della costruzione drammaturgica.
Dobbiamo, però, ammettere una inesattezza nel nostro resoconto. Parlando di un triangolo a serrare geometricamente i protagonisti della scena, abbiamo colpevolmente trascurato un attore, più centrale persino del Lawrence di O'Toole e onnipresente: il paesaggio. L'alzarsi, in lontananza, di un muro di sabbia, una nuvola di passaggio, il piegarsi al vento di un arbusto, di tutto ciò è fatta la sua recitazione, che può essere ingegnosa o pedestre, esaltante o sterile a seconda della mano che la guida. E Lean, così abile nel trarre dai suoi attori il massimo dell'espressione, non manca di riservare altrettanta cura alla resa degli sfondi, a questa recitazione meteorologica, che ha il vigore e l'eloquenza dei paesaggi del muto e la medesima sensibilità nell'inquadrare il vento che smuove la sabbia in delicate onde marine o la gonfia, d'un tratto, come in un turbinio di vele.
Scrive, il regista, in una lettera al produttore Sam Spiegel: "Ciò che renderà questo film davvero eccezionale sono gli sfondi, i cammelli, i cavalli e l'unicità di questa singolare atmosfera, attorno a cui stiamo costruendo la nostra piccola storia" [8].
Il treno di Powell, il treno di LeanChe dire, infine, di David Lean? Cosa significò - per lui e per il cinema - girare "Lawrence d'Arabia"?
C'è di che rimanere perplessi all'idea che quel giovane quacchero visionario, che alla metà degli anni 40 svecchiò d'un colpo il cinema inglese con la quotidianità malinconica di un "Breve incontro", sia divenuto, negli anni 60 - e in pieno furore Nouvelle Vague - l'emblema dell'avventura esotica ad alto budget.
La questione è, evidentemente, complessa; per sbrogliarla vorremmo affiancare a quello di Lean il nome di
Michael Powell, anch'egli inglese e romantico, sebbene di un romanticismo teso a sposare le proprie conseguenze autodistruttive
[9]. Ispirandoci a un parallelo di Raymond Durgnat, potremmo dire che Lean sta a William Wordsworth come Powell sta a Thomas de Quincey, ossia: da un lato un romanticismo destinato a volgersi in "autoritarismo puritano, che certo può essere percepito romanticamente, nonostante manchi quell'elemento di rivolta e insofferenza verso il ritegno che di solito il romanticismo implica"
[10]; dall'altro una costante e scandalosa danza sul precipizio della follia. Del resto l'eroina di "Scarpette rosse" non saprà resistere al richiamo delle rotaie, mentre Celia Johnson, pur con gli occhi sconvolti da un lampo di follia, lascerà passare il treno innanzi a sé. Seppure condotto a esiti pragmatici, il romanticismo di Lean non è meno doloroso: nelle scelte quiete e fatalmente borghesi dei suoi personaggi leggiamo il sintomo di un'inquietudine assoluta, che le costrizioni della socialità non fanno che amplificare.
È in "Tempo d'estate" che, per la prima volta, vediamo una protagonista leaniana abdicare al proprio senso di realtà e interrompere una relazione non per l'obbligo di un calcolato buon senso, ma al fine di preservare l'idea di un amore romantico, che la quotidianità finirebbe col demolire. Il Lawrence di O'Toole è il culmine di questa svolta, l'uomo che fa del mondo un palcoscenico per soddisfare la propria infinita immaginazione.
Si è spesso ironizzato sul fatto che i kolossal di Lean chiamassero a sé un pubblico che poteva, al contempo, sognare e organizzare le proprie vacanze. Un'ipotesi troppo maliziosa per essere giusta. A ben vedere lo spettacolo di un'avventura esotica in 70 mm non induceva negli spettatori un bisogno, piuttosto lo scopriva là dove esso era celato. È nel risveglio di un'ambizione che va, allora, cercata la popolarità di questo cinema senza misura, eppur sempre controllato, capace di muoversi tra le inquietudini dell'animo, rimescolando desideri e ambizioni, sino a suscitare nei suoi spettatori un principio di allucinata esaltazione. La medesima, in effetti, che porterà
Michael Cimino a girare "
I cancelli del cielo"
come se Lean avesse diretto un Western [11], Steven Spielberg a orchestrare grandiose scene di massa ne "L'impero del sole", Bernardo Bertolucci a inventare, con "
L'ultimo imperatore", la sua
madeleine e Francis Ford Coppola a sognare in Vietnam
il suo sogno impossibile.
Di queste e molte altre aspirazioni "Lawrence d'Arabia" fu l'indimenticabile precursore e David Lean il grande maestro.
[1] Michael Sragow,
David Lean's Right of "Passage", Film Comment, 1985.
[2] Oriana Fallaci,
Intervista con il mito, Rizzoli, Milano, 2010.
[3] Andrew Collins,
The Epic Legacy of David Lean, pubblicato su:
The Guardian, 2008.
[4] "Oggi giorno mi sento un po' disorientato, perché quando vado al cinema mi piace che mi si racconti una storia e mi piace sapere dove sono nella storia. Mi piace capire. Ho visto diversi film ultimamente, che contengono cose meravigliose, ma personalmente non so proprio cosa stia accadendo sullo schermo in diversi momenti decisivi. Non so se, per esempio, se si deve pensare che una donna stia immaginando ciò che vede o sogna, o se ciò le stia accadendo effettivamente. Ora, nel mio dizionario, questo non è buon cinema. Sarò strano, ma a me piace raccontare una storia il più chiaramente e semplicemente possibile", citato in: Mario Sesti,
David Lean, Il Castoro Cinema, 1998.
[5] Mario Sesti,
David Lean, Il Castoro Cinema, 1988.
[6] André Bazin,
Haute infidélité, Chaiers du Cinéma n. 80, 1958.
[7] Mario Sesti,
David Lean, Il Castoro Cinema, 1988.
[8] Constatine Santas,
The Epic Films of David Lean, The Scarecrow Press, Toronto, 2012.
[9] Emanuela Martini,
Adela c'est moi, in
David Lean, colore e polvere, Edizioni Cineforum, Bergamo, 2006.
[10] Raymond Durgnat,
A Mirror for England, Faber & Faber, Londra, 1970.
[11] Geoff King,
La nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all'era del blockbuster, Torino, Einaudi, 2004.
10/06/2018