I titoli dei film, quando paiono particolarmente lunghi e arzigogolati, suscitano ancor prima della critica un moto di interrogativa curiosità. "La quattordicesima domenica del tempo ordinario", prendendo in prestito la terminologia che scandisce l’anno liturgico cattolico, evoca nell’animo di Pupi Avati il ricordo del proprio matrimonio e dà dunque alla sua opera una veste innanzitutto autobiografica. Ma non solo.
Giunto al suo quarantatreesimo film, il regista emiliano, lasciatosi alle spalle una pellicola di ampio respiro come "Dante" (2021), esponendosi al rischio di risultare scontato, si reimmerge nella sua Bologna per percorrere rotte di piccolo cabotaggio che gli consentono tuttavia di scandagliare in profondità temi cari alla propria poetica. Come ad esempio la profondità del sentimento d’amore, di recente già vista in "Il fulgore di Dony" (2018), o nel successivo "Lei mi parla ancora" 2021, dove l’autobiografismo assume un peso determinante. Nel corso della sua carriera, che ha attraversato i generi più disparati, Pupi Avati vive in quella rara condizione dell’artista che potremmo definire edenica, per il fatto di non dover dimostrare più alcunchè. Sul piano creativo, tutto ciò lo colloca in una sorta di superiorità demiurgica, tale da consentirgli di tematizzare con garbo, arguzia e leggerezza aspetti nodali della vita, quali il rapporto tra padre e figlio, la tenuta dell’amicizia, o gli interessi personali, come la musica. La musica che, come esplicitato dallo stesso regista, dice molte più cose di quanto non facciano gli attori. Il titolo del film, ad esempio, è anche quello di una canzone che ritorna diegeticamente nei passaggi decisivi del film e in extradiegesi commenta in modo struggente il senso dell’irrevocabilità del passato, quasi che Avati, volgendosi indietro, volesse da un lato celebrare la musica come arte non meno nobile del Cinema e dall’altro affidarle il compito di narrare con poche note la caducità umana.
L’incipit stesso del film, con una serie di fotografie della Bologna del secondo dopoguerra, fino agli anni 60, è il chiaro segno deIl’impostazione da amarcord scelta da Avati. Il film nasce sotto il segno dell’evocatività. E la scelta del bianco e nero in coincidenza con la primissima parte del film ha esattamente lo scopo di dare persistenza, immutabilità e immanenza al ricordo, come avviene per "Apollo 11" (2019), o "Radiograph of a Family" (2020). Il protagonista Marzio è un personaggio per antifrasi destinato al fallimento, perché vive il rapporto con l’amore, l’amicizia e la musica in modo viscerale ma allo stesso tempo distruttivo: più che coltivare consuma ciò che ha di caro intorno. Giunto alla soglia della vecchiaia, va a trovare il vecchio amico Samuele, e ne scopre la depressione, dovuta al fatto che il figlio è in fin di vita. Non solo, ma dopo qualche giorno, in seguito al decesso del figlio, il padre decide di farla finita. Marzio si presenta perciò ai funerali munito di chitarra e animato dal desiderio di suonare per un’ultima volta la canzone del duo denominato “Leggenda”, ora che lui è l’unico superstite ad essere rimasto in vita. Al funerale rivede inoltre l’ormai matura Sandra, di cui si era innamorato e che aveva sposato in gioventù.
Dall’incontro con Sandra iniziano i tre flashback, che scavano nella dura scorza del protagonista ottantenne; i primi due piuttosto brevi, mentre il terzo tanto lungo da costituire il cuore del film. La giovinezza dei tre personaggi principali attraversa così gli spensierati anni 60 e 70, fino alla rottura dei rapporti: Marzio vede sfumare sia il matrimonio con Sandra, sia il progetto di partecipare al Festival di Sanremo insieme a Samuele. È qui che il regista mostra tutta la sua maestria: nel raccontare quei piccoli colpi di fortuna, quelle coincidenze perdute, quelle peripezie andate a vuoto che mettono le vite delle persone su binari irrimediabilmente divergenti. Quello di Marzio è un arco di trasformazione imperfetto, che non si compie, giacchè le sue scenate di gelosia e le sue visioni ottenebranti lo perseguitano anche in età adulta. Per certi aspetti, dunque, la sua parabola ricorda quella di certi personaggi dei film di Joseph Losey, come il protagonista de "Il servo" (1963), per il quale non c’è catarsi né redenzione.
A dire il vero, allargando lo sguardo ai comprimari di Marzio, l’assiologia sfumata non consente di individuare personaggi che si contrappongano schiettamente in positivo al protagonista: se Sandra è volubile e capricciosa, Samuele è opportunista. In fondo i tre personaggi, pur diversi tra loro, soffrono analogamente per una deprivazione socio-affettiva: Sandra ignora letteralmente chi sia il padre, Samuele non riesce a sopravvivere all’idea di perdere Giulio, mentre Marzio rimane orfano del padre troppo presto per poter serenamente elaborarne il lutto. Il film è autobiografico non tanto nella più o meno esatta corrispondenza tra le vicende dei personaggi e quelle del regista, bensì nel medesimo bisogno di guardarsi indietro e interrogarsi sul passato. E che si tratti di un film che ammicca al passato e ne omaggia gli interpreti lo si nota anche dalla scelta degli attori: Gabriele Lavia (a suo tempo protagonista in "Zeder") che interpreta l’adulto Marzio, e Edwige Fenech, alla quale viene affidata la parte della non più giovane Sandra, sono il segno che la nostalgia non è solo quella di chi sta davanti alla macchina da presa.
cast:
Cesare Bocci, Massimo Lopez, Camilla Ciraolo, Lodo Guenzi, Edwige Fenech, Gabriele Lavia
regia:
Pupi Avati
titolo originale:
La quattordicesima domenica del tempo ordinario
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
98'
produzione:
Duea Film, Minerva Pictures, Vision Distribution
sceneggiatura:
Pupi Avati
fotografia:
Cesare Bastelli
scenografie:
Marco Dentici
montaggio:
Ivan Zuccon
costumi:
Maria Fassari
musiche:
Sergio Cammariere, Lucio Gregoretti, Filippo Manni, Massimo Perin