I film documentari che ricostruiscono le vicende storiche di una nazione o di un popolo attingono generalmente a immagini di repertorio, come anche alla documentazione fotografica, e affidano a una voce narrante il compito di tessere il filo rosso che raccordi le immagini agli eventi. In questi casi il supporto iconografico è già di per sé una componente autonoma del testo filmico, di più facile lettura per lo spettatore, proprio perché la voce off costituisce una guida cui affidarsi docilmente per l’intera durata dell’opera. Come esempi di questo modus operandi possono essere citati "La battaglia del Cile", di Patricio Guzman, o i più recenti "Apollo 11", di Todd Douglas Miller, e "Unfit: la psicologia di Donald Trump", di Dan Portland. L’operazione compiuta invece da Firouzeh Khosrovani con "Radiograph of a Family" esprime una differente dialettica tra il parlato e le immagini. Sulla scorta di queste ultime, infatti, la regista iraniana letteralmente ricostruisce in brevi ma essenziali battute il dialogo tra i genitori, imponendo così allo spettatore un ruolo più attivo nella sintesi di raccordo tra parole e immagini. La scrittura filmica è dunque di più impegnativa interpretazione per il pubblico, che tuttavia ne rimane più rapito: oltre che il tono della voce, persino i suoni, ad esempio, hanno un più elevato potenziale evocativo, poiché le immagini hanno un puro valore indicativo e il pubblico è continuamente indotto a operare una sorta di sommatoria tra ciò che vede e ciò che sente. È come se la Khosrovani si sia presa il gusto di fare esattamente il contrario di ciò che Agnes Varda fece girando "Cleo dalle cinque alle sette", in cui il legame tra immagine e parola è talmente indissolubile che, nonostante i tagli di montaggio, si ha la sensazione che il girato riproduca un’unica scena della durata di due ore. Per il maggiore impegno richiesto allo spettatore, il film della Khosrovani è invece accostabile a "La Jetée", (1962) cortometraggio interamente fotografico di Chris Marker.
"Radiograph of a Family" è il racconto della storia della famiglia Firouzeh, dal primo incontro tra Hossein, il padre della futura regista, e la madre Tayi. Le prime parole del film, “Mia madre sposò la fotografia di mio padre” sono al contempo un’informazione sulla diegesi e un invito al pubblico, affinchè estrinsechi dalle foto (anche più che dalle immagini) tutta la forza evocativa. Le prime immagini del film sono dunque costituite dalla successione di semplici foto in bianco e nero e dei primi dialoghi tra i due protagonisti. Lui, maturo studente di radiologia dal promettente futuro, vive a Ginevra. Laico, gioviale, curioso, amante dello stile di vita occidentale fatto di mondanità e musica colta. Agli antipodi lei, giovane, scrupolosa osservante, incolta, diffidente e tradizionalista. Sono due mondi vicini ma anche lontani quelli che si incontrano all’aeroporto di Ginevra. Le immagini che raccontano il loro legame sono amatoriali, di repertorio, non necessariamente riconducibili a quelle in possesso della famiglia. Ben più decisivi i dialoghi ricostruiti e le chiose in voice over della Firouzeh. La cronaca del rapporto di coppia, che dopo il concepimento della figlia torna definitivamente a Teheran, diventa poi il contenitore della Spannung diegetica: il lento trapasso dell’Iran laico, regale e progressista a quello fondamentalista, repubblicano e intollerante.
A veder scorrere le immagini e sentire i commenti arguti e talvolta sarcastici della regista, la mente corre inevitabilmente al fumetto da cui è stato tratto anche il film animato "Persepolis" (2007), anche perché l’angolo visuale dal quale la metamorfosi familiare, e al contempo sociale, viene osservata è soprattutto quella infantile e adolescenziale. Il dissidio che si crea in seno alla famiglia allorchè durante un convegno di radiologia a Roma la madre esprime il desiderio di recarsi a Londra per le esequie di Alì Shariati, celebre attivista islamico, è emblematico. Più in generale, le uniche inquadrature costituite da immagini che non sono di repertorio nè realizzate in stile amatoriale sono riservate all’abitazione. L’abitazione diventa inoltre esempio di immagine-tempo, in quanto la presenza o l’assenza degli arredi scandisce le diverse fasi della storia della famiglia. Nei momenti chiave del documentario, la macchina da presa è infatti collocata frontalmente alla stanza nuziale, e di qui compie delle lentissime carrellate in avanti chiosate dalla voice over, mentre anche la sola presenza, il volume o l’assenza della musica classica ricostituiscono il milieu familiare. Significativamente, la carrellata all’indietro rappresenta invece l’uscita per Firouzeh dall’epoca della spensieratezza: il suo gioco preferito diventa quello di tentare di ricostruire le vecchie foto che la madre ha strappato quasi a voler cancellare le proprie immagini prive di velo. Quando il fanatismo prende il sopravvento anche il montaggio riproduce fedelmente il contrasto tra il prima e il dopo. Un esempio su tutti: da un lato l’immagine della stanza da letto e le parole del padre che insegna come fischiettare l’Inno alla gioia, dall’altra i cori delle donne intabarrate nei funerei vestiti mentre sciamano per le strade di Teheran inneggiando alla rivoluzione islamica. Accostamenti emblematici dell’abilità espressiva della cineasta iraniana.
cast:
Farahnaz Sharifi, Christophe Rezai, Soheila Golestani
regia:
Firouzeh Khosrovani
titolo originale:
Radiograph of a Family
durata:
82'
produzione:
Antipode Films, Dschoint Ventschr Filmproduktion AG, Storyline Pictures, Rainy Pictures
sceneggiatura:
Firouzeh Khosrovani
fotografia:
Mohammad Reza Jahanpanah
montaggio:
Jila Ipakchi, Farahnaz Sharifi, Rainer Maria Trinkler
musiche:
Peyman Yazdanian