"Noli foras ire, in te ipsum redi"
Agostino d'Ippona
28 apocalittici minuti. Una storia di viaggi temporali in cui la tragedia personale si scontra con il destino dell'umanità, il tutto narrato da una voce off che guida lo spettatore nel succedersi di fissi fotogrammi in bianco e nero di pellicola cinematografica a 35mm. Definito dall'autore Chris Marker (al secolo Christian François Bouche-Villeneuve) un cine-romanzo "La jetée" è uno strano ibrido metatestuale che mescola cinema, narrativa, documentario e fotografia, un esperimento unico che nulla ha a che vedere con quei "cineromanzi da rivista"[1] popolari negli anni 50. Il film del regista francese è ambientato in un indefinito futuro prossimo in cui la terra devastata da una terza guerra mondiale e contaminata da un olocausto nucleare consente il rifugio ai pochi umani superstiti solamente in gallerie sotterranee. Come ratti nel sottosuolo di una Parigi ridotta a rovine pochi scienziati cercano una soluzione alla catastrofe già avvenuta percorrendo l'unico sentiero rimasto aperto, il tempo.
Dopo due anni dall'uscita del grande successo di George Pal "L'uomo che visse nel futuro" ("The time machine") il cinema torna ad affrontare il tema dei viaggi temporali che in letteratura affascinava sin dal 1733 con le "Memoirs of the Twentieth Century" di Samuel Madden, ma che aveva raggiunto ampia popolarità nella metà dell ‘800 con l'"A Christmas Carol" di Dickens. Mentre in ambito cinematografico la finzione scientifica si era interessata principalmente di divagazioni interstellari sin da quel "Le voyage dans la lune" di Méliès e le profondità temporali consentivano ancora ampie rotte inesplorate.
Il sentiero dell'immaginazione
Un uomo, un eroe senza nome, prigioniero dopo la sconfitta nella guerra, è sottoposto a dolorosi esperimenti che attraverso continue iniezioni di droghe dovrebbero proiettarlo nel passato attraverso il vascello della sua sola mente. L'uomo, scelto per la forte capacità immaginativa, ricorda con chiarezza un episodio di quando era bambino nel periodo prebellico: il pontile dell'aeroporto di Orly, un volto di donna, un uomo che corre e poi cade esangue. Le droghe, iniettate dagli scienziati che sussurrano in tedesco, scorrono dolorosamente nelle sue vene e le immagini si susseguono l'un l'altra, dapprima concrete come miraggi nel deserto, e via via sempre più prossime tanto più il mondo passato si concretizza divenendo il presente del viaggiatore. Dall'incalzante procedere di queste visioni l'uomo è sopraffatto: "Al decimo giorno di esperimenti cominciano a sorgere delle immagini, come delle confessioni. Una mattina del tempo di pace. Una stanza del tempo di pace. Una stanza vera. Bambini veri. Uccelli veri. Gatti veri. Tombe vere". Sopraffatto dalla materia che si concretizza in un tempo di pace del quale aveva solo un ricordo d'infanzia. E allo stesso modo in cui affiorano i ricordi anche questo mondo sorge: dall'interiorità del viaggiatore stesso "come delle confessioni" appunto.
"Come delle confessioni", ovvero come una intima certezza custodita e nascosta nell'interiorità. E nel loro venir fuori da interna verità[2] le immagini che sgorgano dal viaggiatore divengono la concreta realtà esterna. Il mondo di pace non è più solo un ricordo, ma vero e concreto in tutta la sua banalità fatta di stanze, bambini, uccelli, gatti, tombe. Una banalità che evoca lo stupore di chi ne serbava solo un lontano ricordo. Così, nella dinamica tra realtà interna e realtà esterna, tra verità del ricordo e verità dell'esperienza l'immaginazione creativa partorisce un mondo perduto mentre litanica in sottofondo scorre ciclicamente una frase in tedesco, quasi come un mantra che gli scienziati ripetono e che si insinua nel nuovo mondo. È questa una chiara critica alla fallimentare e paradossale ideologia del regime di Vichy[3] che Marker introduce nel suo lavoro delineando il rapporto vincitori/vinti come scienziati/cavie, ovvero soggetti/oggetti in un equilibrio sbilanciato verso i primi che vorrebbero indurre il parto del nuovo-vecchio mondo attraverso un doloroso travaglio. L'allegorica rappresentazione del regime tedesco in Francia nel corso della seconda guerra mondiale, nonché l'idea di ricorsività degli eventi storici non esaurisce però le possibilità de "La Jetée", come nemmeno l'inserirsi in un discorso filosofico che attraversava l'intera storia del pensiero occidentale, ma conferisce all'opera di Marker un polisemico e stratificato sostrato culturale dal quale emerge prepotentemente l'idea produttiva che il regista ha dell'immaginazione. Accentuando, infatti, le principali caratteristiche che attribuiva all'immaginazione Sartre, presso il quale Marker aveva studiato filosofia, il regista francese inscena il teatro della coscienza, la forza dei cui atti non solo connette la realtà del pensiero a quella del mondo esterno, ma addirittura può annichilirlo o rigenerarlo.
Paradossi del tempo, paradossi del senso
Ma ora la distruzione e la genesi dei mondi immaginati travalica l'atto mentale che li pone in quanto esistenti: l'immaginazione in Marker colma così il gap tra l'esistenza del pensiero e l'esistenza nella realtà esterna nella torsione dell'uno sull'altro inanellando uno dei tanti circoli in cui la pellicola è strutturata. In modo simile, infatti, Marker comprende il paradosso insito in ogni concezione di viaggio temporale e ne fa virtù chiudendo il mondo de "La Jetée" in un cerchio perfetto che incastra i personaggi in un loop che non concede vie di fuga. Dobbiamo aspettare l'arrivo degli anni '80 perché l'astrofisico teorico Novikov enunci in maniera compiuta col suo "principio di autoconsistenza" quello che il regista francese mostrava sin dal '62 ne "La Jetée", ovvero l'impossibilità di modificare gli accadimenti del passato con viaggi temporali.
La necessità impregna l'universo di Marker senza concedere scappatoia alcuna - la celebre citazione del "Vertigo" hitchcockiano si inserisce in questo contesto. Sia che il salto temporale avvenga nel passato che nel futuro nulla è concesso alla libertà dell'individuo costretto a determinare il proprio destino e quello del mondo per come esso è. L'imperativa freddezza del sillogismo temporale implacabilmente conduce l'uomo all'incontro con la propria morte, una morte già postulata e custodita nell'immagine che apriva la pellicola e che l'uomo vividamente conservava sin dall'infanzia. È un labirinto circolare questo cosmico dramma della memoria in cui l'eroe è lanciato verso la morte dalla coincidenza di due immagini, dalla collisione di due mondi. Borges, Kafka, Proust: sono i grandi padri letterarii che il regista richiama in vita con quest'opera per sbarazzarsene attraverso un titanico e spietato parricidio narrativo frastagliato come le onde della memoria.
Fotografie dalla memoria
Con la gelida cadenza di un documentario le immagini si succedono. La memoria, nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, si articola in processi non dissimili da quelli della tecnica fotografica che congela un istante ed un soggetto, lo obiettivizza come fosse una statua od un animale impagliato da ammirare in un museo. Le foto, infatti, annullano il movimento spaziale lasciando campo aperto agli spostamenti temporali e alla loro concettualizzazione fino all'inquietante estasi d'un battito di ciglia. Così, anche il rapporto del viaggiatore con la donna che incontra nel passato si congela fotograficamente: "Sono senza ricordi, senza progetti. Il loro rapporto si costruisce semplicemente attorno a loro e ha, come unico riferimento, il gusto del momento che vivono [...]." L'immobilità assorbe tutto e diviene la quintessenza di una vita perseguitata dalle immagini.
Marker andrà ancora più a fondo nello sviscerare il nodo immagine e memoria nel documentario "Sans Soleil" (1983) in una riflessione a campo aperto sull'uomo e la sua natura sociale che si articola attraverso la grammatica delle immagini/memoria. Altra opera interessante del regista francese che sfocia in una finale teoria dell'oblio dal sapore nietzschiano.
Alla deriva
"La Jetée" di Chris Marker è, come già detto, un esperimento unico, un nuovo tipo di cinema che sfrutta lo stile del documentario per narrare una storia di finzione da cui molto hanno appreso Peter Watkins (si veda a proposito l'interessantissimo "Punishment Park", 1971) e Werner Herzog (uno tra i tanti esempii herzoghiani possibili è lo splendido "Apocalisse nel deserto", 1992), uno dei più grandi maestri del cinema dei nostri tempi che nella sua lunga carriera ha anche cercato di declinare i possibili mondi intermedii tra finzione e documentario. La storia del viaggiatore intrappolato nel tempo è stata ripresa quasi per intero ne "L'esercito delle 12 scimmie" di Terry Gilliam e con sostanziali interventi nella serie di film di James Cameron "Terminator". Ma anche il mondo dei video musicali ha più volte ceduto al fascino de "La Jetée", citata tanto nel video "Jump They Say"[4] (1993) di David Bowie che in quello del gruppo post-metal Isis di "In Fiction"[5] (2004). Per arrivare, infine, a quel "Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti" di Apichatpong Weerasethakul che aveva conquistato la Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 2010 e che in una lunga scena ripercorreva e citava "La Jetée" anche da un punto di vista tecnico.
La forza dell'opera consegnataci da Marker è dirompente: in 28 apocalittici minuti struttura una metafora della coscienza umana, una metafora della condizione umana nella sospensione tra sogno e realtà. Un labirintico incubo senza via di fuga.
[1] C' era una volta il cineromanzo - Monumento della cultura pop
[2] Per capire meglio Marker facciamo un salto in dietro nel tempo anche noi. Sul finire del IV secolo nel libro trentanovesimo del suo De vera religione Agostino d'Ippona indicando il sentiero da seguire per raggiungere la verità scrive: "noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas" ("Non rivolgerti all'esterno, ma torna in te stesso: all'interno dell'uomo dimora la verità." Agostino, De vera religione, XXXIX, 72) riuscendo per la prima volta nella storia del pensiero a formulare in modo compiuto la necessità di un auto-rivolgimento, di una riflessione dell'uomo in se stesso per poter conoscere qualcosa. Già il motto delfico fletteva il conoscere in uno "γνῶθι σαυτόν" ("Conosci te stesso") che Platone (Cfr. Platone, Alcibiade Maggiore, 132d1-133c7) poi intese come un addentrarsi nella conoscenza dell'anima attraverso il divino, ma tanto Platone quanto Agostino navigavano in acque agitate dall'impossibilità di aggrapparsi ad un punto fermo che appartenesse all'uomo soltanto senza rivolgersi ad entità ultraterrene. È una peregrinazione questa che raggiunge la terraferma solamente con Descartes e col suo "Ego cogito", un'interna certezza di verità che crea e pone l'uomo in quanto soggetto [A ben vedere ancora dei passi dovevano essere compiuti per raggiungere un vero e proprio soggetto, ma già con Decartes si intravede un sub-jectum in quanto "gettato sotto" (e allo stesso modo in greco ὑποκείμενον", ovvero "ciò che sta sotto")], ora solamente è possibile conoscere qualcosa come vero in quanto c'è qualcuno che può conoscere. Calcolare, esperire, intuire. Le forme del conoscere vengono sviscerate, ma mai tanto in profondità quanto da Kant (Cfr. Kant, Critica della ragion pura, §28) che include tra esse anche l'immaginazione, la quale da un lato produce a priori le forme del tempo e dello spazio e dall'altro riproduce immagini ed oggetti intuiti precedentemente.
[3] D'altro canto anche tutte le fotografie di scenari post bellici utilizzate nell'apertura del cortometraggio sono foto di città devastate nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
[4] Video infatti incluso tra i contenuti speciali del boxset DVD de "La Jetée"/"Sans Soleil" della Criterion Collection (http://www.criterion.com/boxsets/77-la-jetee-sans-soleil).
[5] http://www.popmatters.com/pm/review/isis-isis-clearing-the-eye-dvd/
cast:
Jean Négroni, Hélène Chatelain, Davos Hanich, Jacques Ledoux
regia:
Chris Marker
titolo originale:
La Jetée
durata:
28'
produzione:
Anatole Dauman
sceneggiatura:
Chris Marker
fotografia:
Chris Marker, Jean Chiabaut
montaggio:
Jean Ravel
musiche:
Trevor Duncan