L'idea è quella del backstage, il profilmico che si fa quinta, il trasferimento dell'approccio planimetrico di "The French Dispatch" a teatro, una matriosca semiotico narrativa, in cui l'amplificazione, come scrive il collega Giuseppe Gangi, "genera prospettive e tonalità differenti". E, sei personaggi - un cast, come sempre, di primissimo piano, Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley - in cerca d'autore. È l'ultimo lavoro di Wes Anderson, "La meravigliosa storia di Henry Sugar", l'adattamento dell'omonimo racconto di Roald Dahl del 1977, come già fatto in precedenza nel 2009 con la messa in scena di "Fantastic Mr. Fox": Henry Sugar è un giocatore d'azzardo che apprende il talento di un uomo indiano in grado di vedere senza usare gli occhi. L'autore americano torna a Venezia – in attessa di vederlo in sala con "Asteorid City" – con una short story, come aveva fatto nel 2017 proponendo uno dei suoi lavori più riusciti, anch'esso un corto, "Hotel Chevalier" con Natalie Portman, dai colori accesissimi.
La grammatica cinematografica equilibrista di Anderson la conosciamo: geometrica, schematica, in una palette, lo stilema che in questo caso salta più all'occhio, composta da una patina cromatica omogena e pastellata. È evidente si tratti di un cadeau per l'ottantesima edizione della Mostra, nulla di iper-strutturato, che l'ha onorato del "Cartier Glory to the Filmmaker 2023". La durata della pellicola, da mediometraggio, è forse la spia del ragionamento metanarrativo – tutt'altro che insolito in Anderson – che rappresenta l'aspetto più interessante del lavoro fuori concorso del regista texano. In poco meno di quaranta minuti, Anderson condensa diversi elementi tra loro in contrasto. Da un lato, l'intenzione carveriana della storia breve, una direzione cioè all'ordinario, in cui Henry Sugar è eroe e anti-eroe – "non voglio essere l'uomo più ricco del mondo"- , in bilico tra il quotidiano e, paradossalmente, lo straordinario di apprendere come "vedere senza occhi"; dall'altro, la teatralizzazione del girato ha un effetto dapprima destabilizzante, portato a termine con la rottura brecthiana (pirandelliana…) della quarta parete, che dà il là a un non-sequitur bulimico, inarrestabile, come i continui sguardi in camera dei protagonisti, oltre le scenografie dioramiche che ricordano "Le avventure acquatiche di Steve Zissou". La rottura non è solo semiotica, tra attore e spettatore, ma soprattutto narratologica, tra attori che si passano la palla. Anderson ha trovato una realizzazione filmica del discorso indiretto libero verghiano sorprendente.
Tuttavia, se in "Moonrise Kingdoom – una fuga d'amore" il cinema di Anderson faceva "una torsione in avanti", in "Henry Sugar" opera un'auto-torsione, su stesso; se alla mostra abbiamo apprezzato la natura consustanziale del binomio forma-sostanza in "Povere creature!" di Lanthimos, pare che in questo quel binomio non solo si sfaldi, ma non trovi una realizzazione compiuta - per Anderson ha sempre rappresentato un medium per certi versi irrinunciabile per la narrazione dei mezzi narrativi. L'universo iper-cartesiano, arci-geometrico della pellicola rischia di tracciare dei confini all'amplificazione, che rimane, di cui si diceva. Il ragionamento sull'infinitezza (omaggio a Roy Anderson) dimentica l'assunto cantoriano sull'infinito, ne esistono, cioè, di diverse grandezze, e, di conseguenza, davanti all'infinitezza una direzione è possibile, prima che il cinema di Anderson lo fagociti. Vediamo quale sarà quella di "Asteroid City".
cast:
Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley
regia:
Wes Anderson
titolo originale:
The Wonderful Story of Henry Sugar
distribuzione:
Netflix
durata:
37'
produzione:
American Empirical Pictures, Netflix
sceneggiatura:
Wes Anderson
fotografia:
Robert Yeoman
scenografie:
Adam Stockhausen, Anna Pinnock
montaggio:
Barney Pilling, Andrew Weisblum
costumi:
Kasia Walicka Maimone
musiche:
Alexandre Desplat