Per la sua prima volta dietro la macchina da presa, Maggie Gyllenhaal si è cimentata con il compito insidioso di adattare la materia letteraria al grande schermo. La trama de “La figlia oscura” segue pedissequa quella del romanzo omonimo di Elena Ferrante: Leda Caruso (Olivia Colman; Jessie Buckley nei flashback) è una professoressa di letteratura comparata in vacanza in Grecia. Durante il soggiorno, l’incontro con Nina (Dakota Johnson) e sua figlia Elena (Athena Martin) le ricorda l’infanzia travagliata delle sue due figlie, Bianca e Martha. È un esordio alla regia controllato, a tratti insondabile, di sicuro ambizioso.
Scoordinazione
Il film, come il romanzo, vive di inneschi narrativi illusori. È Leda a disattivarli: quando ritrova Elena, quando restituisce la bambola che ha rubato alla bambina a Nina, quando pare le stia per accadere qualcosa di brutto ma così non avviene. Lo schema di Gyllenhaal è lo stesso di Ferrante: la narrazione è costellata da sommari, in cui il tempo del racconto è più breve del tempo della storia. Ma la regista sfrutta il sistema diacronico del romanzo per reinterpretare e in parte destrutturare (al di là delle esigenze strettamente cinematografiche) l’impianto narratologico del romanzo stesso. L’operazione di Gyllenhaal è di assoluto valore: nella pellicola, i temi del romanzo non soffrono del didascalismo della scrittrice, ma emergono tranchant. La regia non esaspera la propria (intrinseca) funzione deittica, resta spesso a distanza, non stringe quasi mai l’inquadratura. La focalizzazione zero del narratore del romanzo è sostituita dall’occhio tutt’altro che onnisciente della camera. In “La figlia oscura” abbiamo la sensazione di essere noi stessi i narratori (in sincronia), anche a causa della subordinazione pressoché totale tra camera, soggetto/oggetto e azione.
La colonna sonora fa da contro altare alla regia insondabile di Gyllenhaal. L’utilizzo allodiegetico delle musiche di Dickon Hinchliffe è asfissiante, onnipresente; verifica ciò che Leda disinnesca e amplifica il suo comportamento spaesato, nevrotico. Anche il montaggio di Affonso Gonçalves invera, per così dire, la regia, e fa da cassa di risonanza al contrasto tra diacronia e sincronia della storia. L’accelerazione della narrazione è sincopata, il battito filmico è irregolare, solo la circolarità dell’intreccio sembra dare una regola. Arriviamo dove siamo partiti, il montaggio è alternato; le analessi del film, a differenza del libro, hanno una funzione diegetica parallela, non anzitutto analitica.
La scelta di Gyllenhaal di scoordinare (in parte) la regia dal resto non è la causa di un film disunito, ma corrisponde a Leda: Olivia Colman è una donna che vorrebbe fare a pezzi se stessa, ma si perdona, ma non è convinta; la sua frustrazione esplode per cose da poco (la scena dei ragazzi che ridono ad alta voce al cinema), al contrario, la soffoca quando si tratta del ricordo delle figlie.
Telemaco
La sceneggiatura del film non è minimalista, lo sono i dialoghi, asettici, schizofrenici, parossistici - ciò che richiedeva la costruzione di un personaggio contradditorio come Leda. Nella sceneggiatura di Gyllenhaal c’è molto dell’esercizio metalinguistico di “Lontano da qui”, in cui interpretava una maestra elementare che scopriva lo straordinario talento poetico di un bambino.Non è un caso che Gyllenhaal abbia scelto una storia in cui la protagonista ha un “nome parlante”, poetico, che possiede un’allusione animale precisa, il cigno, forse l’unico essere vivente che, come l’uomo, sa vivere solo. Il sonetto di Yeats - Leda and the Swan - è la punta dell’iceberg di una simbologia ricchissima: la buccia della frutta tagliata a serpente, la bambola, la luce verde del faro, la pigna che le cade sulla schiena, la cicala, “l’ombelico bottone della pancia”. Il linguaggio metaforico de “La figlia oscura” risponde all’esigenza pasoliniana “totalmente verbale[1]” della lingua cinematografica. Per meglio dire, nella pellicola l’impostazione di Gyllenhaal è re-azionaria ed espropriativa; l’appartenenza è un sentimento procedurale, non consequenziale: il possesso non è tale se non in due (almeno), giusto?, direbbe Leda. Pensiamo alla domanda che fa a Will (Paul Mescal), il bagnino, a cena in uno dei pochi effluvi dialogici: “Ho pensato di rifarmi il seno, ma perché, alla fine non è davvero mio, vero?”. Il simbolo, quindi, determina un luogo dell’’appartenenza e non del possesso, ossia un punto in cui riconoscersi ma essere liberi, come facevano Leda e le sue figlie attorno all’arancia, alla mela. Insomma, una re-azione a un legame, quello da figlio a genitore, fondato su un atto di fiducia ex abrupto, disinteressato: “come per Telemaco, è il genitore a dirci che siamo nati[2]”. L’idea di Gyllenhaal è ambiziosa: piegare l’interpretazione all’azione. Ci riesce a metà: se da un lato restituisce una narrazione sospesa, re-azionaria, dall’altro, a volte, è vittima del suo stesso personaggio, il controllo del limite vacilla, l’insondabile diventa insipido, approssimazione, e il possesso fagocita l’appartenenza.
Come una bambola
Leda è una madre vista poche volte al cinema, forse in “Mommy”, quando Diane (Anne Dorval) si avvale dell’articolo S-14. L’assiologia del personaggio è contradditoria (nel romanzo meno), cupa, come la fotografia iniziale: Olivia Colman sembra la protagonista di un racconto di Cechov - la pistola è pronta a sparare (a se stessa). L’ossessione con cui culla la bambola, la pulisce, le ficca il dito in bocca, la chiude nella credenza, l’abbraccia mentre dorme, è infantile, “cattiva” (?), come le dice Lyle (Ed harris). Leda è impenetrabile; dalle sue piccole crisi tracciamo una mappa sommaria del suo stato d’animo. La ragione, forse, è che sbagliamo, Leda non è una madre. In “La figlia oscura” la maternità è una conseguenza fastidiosa, una responsabilità opprimente, “schiacciante”. L’interpretazione di Leda gioca sul registro infantile - antitetico alla (ipotetica) maturità materna –, la prossemica di Colman è schiva, la gestualità e le pose sono bambinesche, come le paure: dopo aver visto una cicala sul cuscino del letto, Leda si nasconde sotto le coperte. La mimica schizofrenica, renitente di Leda non è poi così distante da quella della Regina Anna de “La favorita”.
La critica femminista del romanzo – senza dubbio, il tema più caro alla narrativa di Ferrante – è al centro della pellicola di Gyllenhaal. Ma la percezione che “La figlia oscura” racconti (solo) di una donna vittima della maternità è incompleta, com’è altrettanto parziale l’idea che Leda propugni una resistenza comportamentale. La dimensione (e denuncia) sociologica de “La figlia oscura” è una concausa della caratura esistenziale della storia. Se la Leda di Jessie Buckley è la Mira del recente “Scene da un matrimonio” - – esuberante, emotiva, autonoma, esplosiva, egoista, soffocata dalla subordinazione a un ruolo, a un marito, a un figlio –, la Leda di Olivia Colman è Anne Karenina: dalla banchina, dalla spiaggia, viene a patti col proprio dolore, in bilinco, vittima di una rompicapo: perché non ho scelto come tutte? Il pianto finale non è liberatorio, ma consolatorio, tristissimo. Come ogni personaggio tolstojano, Leda è solo nel passato.
[1] Cfr. P. Pasolini, Empirismo Eretico, Garzanti (2000), pp- 197-207.
[2] D. Mendelsohn, Un’odissea, Einaudi (2017), p.35.
cast:
Dakota Johnson, Ed Harris, Jessie Buckley, Olivia Colman
regia:
Maggie Gyllenhaal
titolo originale:
The Lost Daughter
distribuzione:
Bim Distribuzione
durata:
121'
produzione:
In the current
sceneggiatura:
Maggie Gyllenhaal
fotografia:
Hélène Louvart
montaggio:
Affonso Gonçalves
musiche:
Dickon Hinchliffe