L'arte è un atto di violenza
N. W. Refn
L'elemento del crimine
Lars Von Trier non è morto giovane ed è dunque condannato a ripetere se stesso: ogni sua prova deve confermare il suo status di "maledetto" e rilanciare la ricezione controversa della sua opera. Non casuale il comunicato della Videa Spa pochi giorni prima del lancio de "La casa di Jack" nelle sale italiane: nonostante la meritoria distribuzione, il presidente Sandro Parenzo ha voluto mettere le mani avanti asserendo di portare nei cinema il film, come aveva fatto trentacinque anni fa con "L’elemento del crimine", per mostrare ancora una volta come la società civile riesca a porre una distanza tra l’arte e un uomo detestabile e perso tra i suoi demoni come Von Trier ("che mai incontrerò" cit.). Il film si vedrà sul grande schermo addirittura in due versioni, una censurata e, in lingua originale, la director's cut (differenza di circa due minuti), quella – per intenderci – che ha portato numerosi spettatori ad abbandonare la sala durante la première al Festival di Cannes del 2018.
Eppure, le immagini de "La casa di Jack" non sono né estreme né dolorosamente abrasive quanto quelle di "Antichrist", che aveva segnato un punto di non ritorno nel cinema e probabilmente anche nella vita del regista. Non mancano scene di violenza e momenti sinceramente disturbanti, ma il mélange di registri e di tono già sperimentato in "Nymphomaniac" si setta sulle frequenze del teatro grottesco e della commedia nera, slittando gradualmente in quello spleen cupo e riflessivo che ammantava "Melancholia".
Da "Antichrist" in poi Von Trier si è costantemente auto-analizzato scavando nel lutto, nel dolore, nei limiti della libertà, nel male: ogni film ha avuto una valenza terapeutica e, se dobbiamo credergli, lo ha anche aiutato a smettere di abusare di alcol e droga. Il carattere mimetico e postmoderno nel riuso di materiali provenienti dai generi – approccio esibito sin da "L'elemento del crimine" che ricamava sui topoi del noir e della detective story, precedendo di qualche anno un certo tipo autorialità europea (voce fuori campo come narratore inattendibile, angoli di ripresa deformanti, prepotenti viraggi nella fotografia) - giunge al capolinea proprio con "Antichrist", al contempo tabula rasa suicida, compendio del cinema vontrieriano e suo rilancio nella pratica allegorica. Da qui in poi l'autore danese, oltre a lavorare sulla grammatica dei generi e sulle forme del cinema d'autore, sabotandoli e provocando le aspettative del pubblico, riflette più sublimamente anche su se stesso e sul suo cinema. Delle sue auto-analisi, "The House That Jack Built" si connota come quella più sfacciata.
Hit The Road, Jack
Schermo nero. Due voci parlano fuori campo, sono quelle di Jack (Matt Dillon nel ruolo della vita) e Verge (Bruno Ganz): il primo chiede se durante il viaggio che stanno compiendo si possa parlare, l’altro risponde che tutti i suoi predecessori sono stati colti da una strana voglia di raccontarsi. Compare dunque il titolo e il protagonista introduce la propria storia, che coprirà un arco di dodici anni, sfruttando cinque episodi (detti "incidenti"). Come nel dittico di "Nymphomaniac", anche stavolta il protagonista si racconta a un uomo più anziano e navigato, ma se Seligman cerca di incanalare intellettualmente i cambiamenti psico-sessuali di Joe, mostrandosi comprensivo, Verge sferza ironicamente, sminuisce e censura Jack fin dall’inizio. I cinque pannelli seguono la sua evoluzione criminale, mostrando i delitti passare dal raptus omicida a piani premeditati che rivelano una raffinazione della sua depravazione.
Nel "primo incidente" Jack, seduto alla guida del suo furgoncino rosso, incontra una donna con uno pneumatico bucato e il cric rotto (è Uma Thurman che per dieci minuti cannibalizza la scena). La signora, petulante e invadente, convince il protagonista a farsi accompagnare da un fabbro e inizia poi a schernirlo dicendo che magari è un serial-killer e che per difendersi da lui avrebbe dovuto usare proprio il cric. Sul gioco di parole tra Jack e jack (cric, in inglese) Von Trier si trastulla inquadrando l’oggetto e staccando improvvisamente su di esso, come fosse una pistola pronta a sparare. Finito il racconto, il protagonista inizia una digressione teorica sull'architettura gotica e sull’importanza del materiale utilizzato: prima di molteplici parentesi didattico-esegetiche, essa svolge la funzione di spiegare all'interlocutore e a noi il pensiero prima dell'azione, l'deale estetico a cui tende l'assassino tramite le sue nefandezze. Jack è stato l’esecutore materiale di un omicidio a cui era predestinato dalla presenza di un materiale perfetto (appunto, il jack) che, fracassando il cranio alla donna, ne ha cambiato i connotati (come un dipinto cubista), così da creare un simulacro. Jack declama dunque la sua superiore sensibilità fondando una pratica artistica in cui il gesto violento è contingente alla creazione: l’artista è un superuomo al di là del bene e del male, la cui opera non può essere valutata secondo mediocri codici morali.
Evidente il transfert tra Jack e Lars, benché dissimulato ironicamente, ed è forse persino più interessante quello tra l’autore e il personaggio di Verge che oppone una strenua resistenza all’oscenità, all’umorismo macabro e alla teoresi dell’assassino. Egli rileva immediatamente la componente ossessivo-compulsiva ma, soprattutto, ne riconosce l’incompiutezza come essere umano: è un ingegnere frustrato, che coltiva un sogno da architetto (costruire la propria casa seguendo il progetto dal disegno fino all'edificazione); la sfera emotiva è stata soffocata da sovrastrutture intellettuali ed esoteriche (le opere d'arte occultate agli occhi di tutti, eccetto a quelli del "grande architetto", la seduzione della "luce oscura"). Le confessioni del serial-killer sono per Von Trier un mezzo efficace e sconcertante di autofiction, in cui, ragionando per assurdi paradossi, analizza lo stato dell'arte. I delitti di Jack sono dimostrazioni di un teorema antico, ossia la relazione tra delitto e castigo, l’impossibilità di convivenza tra fiere e prede: le imprese di Jack rappresentano l’assenza di un ordine morale prestabilito, l’invasività di un Male inestirpabile (Jack è un introverso A-lex kubrickiano) e, in ultima analisi, l’indifferenza di una civiltà che si è abituata alla violenza. Senza dubbio, una delle scene più abissali e nichiliste riguarda la morte di Jacqueline che, intuita la pericolosità dell’uomo, prima chiede aiuto alla polizia e poi urla a squarciagola dalla finestra; ma nella realtà alternativa di Von Trier, simulacro ipermoderno della quotidianità, non c'è né uomo né dio disposto a soccorrerci.
Il contrappunto e la pratica allegorica
Da Jack e da Verge affiorano weltanschauung inconciliabili afferenti a un diverso modo di concepire la vita e il mondo: è in quest’aporia che si situa Von Trier. Sin da subito l'anziano assume il ruolo di faro morale e di guida all’interno della narrazione e s’intuisce come delinei una traslitterazione contemporanea di Virgilio, di cui Verge è un diminutivo, oltre a essere un nomen omen (in italiano si tradurrebbe "limite", "bordo"). Jack è un esteta del male, la passione per l’architettura delle rovine di Albert Speer, per le icone negative, la lezione sulla "muffa nobile" - un modo di decomposizione dell'uva per ricavarne un vino dolcissimo - sono tutti esempi di quegli aspetti della vita e dell’essere umano che vorremmo occultare ma che sono inscindibili dall’esperienza terrena della materia. Verge oppone un immaginario artistico pervaso dall’armonia, dall’amore per gli uomini e dalla fede risolutrice nel Bello: il terrorizzante suono degli Stuka in picchiata da un lato, "La nascita di Venere" di Botticelli dall’altro. Verge è inevitabilmente l'ultimo esponente di una tradizione classica, mentre Jack è proiettato nella contemporaneità, la sua arte è fondata sulla manipolazione dei materiali, sulla loro sfigurazione, concentrandosi sullo shock emotivo che ne deriva.
Anche "La casa di Jack" lavora sui medesimi procedimenti: materiali eterogenei (estratti di film, reportage, documentari, foto, animazione), diversi formati, escursioni tra comico e tragico, grottesco e orrore (si pensi alle sequenze commentate da "Fame" di David Bowie); il meccanismo stilistico per legare e tenere insieme in un sistema coerente elementi così differenti è trovato dal regista nella tecnica del contrappunto (di cui Glenn Gould, più volte citato, era un virtuoso). Oscillando tra l'uso della macchina a mano e di pittorici tableaux, la regia vontrieriana dispiega la propria malefica intelligenza proprio quando installa nella narrazione immagini e sequenze dai fini digressivi e informativi, intercapedini ora pedagogiche, ora autoironiche in cui si deposita il senso ultimo del proprio operato. Ad esempio, attraverso un ricordo d'infanzia, il protagonista illustra la propria passione non tanto per la fotografia, quanto per i negativi, poiché sul negativo fotografico, il punto d'illuminazione è un buco nero. Questa sequenza è costruita mirabilmente attraverso rapidi cut che, agli occhi chiusi del bambino, raccordano una fredda luce che diviene il negativo da cui siamo risucchiati: cinematograficamente è una costruzione perfettamente speculare a ciò che accadeva in "Silence", quando Rodrigues vedeva (ad occhi chiusi) il volto del Cristo di El Greco, mentre Jack scorge la qualità demoniaca della luce. Il massimo Bene e il Male più oscuro, l’unità degli opposti da cui Von Trier sembra attratto.
L'omicidio seriale, l'attività in cui Jack eccelle, compensa l’onta di non riuscire a completare la propria casa, opera-mondo continuamente rimandata: Verge fa notare allo psicopatico protagonista come le sue meditazioni cadano in contraddizione poiché la casa in-finita, abbozzata per essere demolita, non costituisce per lui alcuna fonte di piacere. La sua casa è una cattedrale del Male, un’allegoria dell'orrore della "soluzione finale". La catabasi dell'epilogo rappresenta il momento apicale di un percorso di confessione-agnizione, in cui Jack comprende la vanità del proprio agire, l’inconcludenza delle proprie gesta.
Cosa spinge Jack a uccidere? La spiegazione autoassolutoria (e sbertucciata da Verge) vede una sagoma camminare tra un lampione e un altro: sotto la luce la figura è piena, coincidendo con la propria ombra, mano a mano che si allontana l’ombra lo segue e poi lo supera attendendolo sotto il prossimo lampione, dopo che avrà ucciso nuovamente per spurgare il proprio dolore. Avere un serial-killer quale alter ego è un’arma a doppio taglio che il regista sfrutta senza cautele, sbeffeggiando preventivamente le critiche ma volendo imbarazzare anche i suoi estimatori: le idee su Speer, la fascinazione per le icone, la finzione artistica come sublimazione dei nostri istinti più feroci appartengono a Von Trier. E per non farsi mancare nulla, vi sono estratti dalla propria filmografia e chiari riferimenti alla sua discussa misoginia (le vittime di quattro incidenti su cinque sono donne) sulla quale, interpellato da Verge, Jack risponde come Von Trier intervistato da Mark Cousins in "The Story of Film: An Odissey": le donne (leggi "le attrici") sono più collaborative.
Il rovello che affligge Von Trier non riguarda solo l‘universale (l'esistenza metafisica del Male, la ricerca disperata di una Trascendenza ordinatrice) ma, più nel particolare, la (sua) sofferenza dietro al processo di creazione artistica. Come molti artisti, anche Jack matura una graduale consapevolezza nei propri mezzi: mentre si dileguano le compulsioni ossessive (divertenti nel loro essere irritanti), è divorato dal desiderio di realizzare la propria opera nella sua forma più sofisticata. Ma per arrivare al paradiso della soddisfazione dell'opera finita non può che subire il contrappasso di scendere all'inferno. Il suo inferno non è lastricato da buone intenzioni bensì dal peggiore dei deliri narcisisti: vissuto in un'illusione di grandezza Jack realizza di non essere un Dante rinato. Il suo percorso di esplorazione collusa col male non può che condannarlo: per fotografare il negativo della realtà bisogna farsi inghiottire dal lato oscuro della luce.
cast:
Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough, Jeremy Davies
regia:
Lars Von Trier
titolo originale:
The House That Jack Built
distribuzione:
Videa
durata:
155'
produzione:
Zentropa; Nordisk Film; Les films du losange
sceneggiatura:
Lars Von Trier
fotografia:
Manuel Alberto Claro
scenografie:
Simone Grau Roney
montaggio:
Molly Marlene Stensgaard
costumi:
Manon Rasmussen
musiche:
Víctor Reyes