Dopo il buon debutto di due anni fa con “La ragazza nella nebbia”, Donato Carrisi torna dietro la macchina da presa con “L’uomo del labirinto”, portando sullo schermo la sceneggiatura che ha tratto dal suo penultimo omonimo romanzo.
Al centro della narrazione abbiamo il ritrovamento di una donna, Samantha Andretti (Valentina Bellè), rapita misteriosamente quindici anni prima quand’era ancora una bambina. Ricoverata in ospedale è interrogata dal dotto Green (Dustin Hoffman) che cerca di aiutarla a ritrovare la memoria. Contemporaneamente, l’investigatore privato Bruno Genko (Toni Servillo), a cui hanno diagnosticato un male terminale, si mette alla ricerca del rapitore proprio negli ultimi giorni che gli restano da vivere. Genko era stato ingaggiato dai genitori della Andretti ai tempi del rapimento, ma l’investigatore non era riuscito a trovare la ragazza. Il ritrovamento di Samantha gli dà l’ultimo scopo prima di morire.
Carrisi è bravo sia nella messa in scena sia nella scrittura del thriller, di cui ha dato ampio esempio nella pellicola precedente. Anche in “L’uomo del labirinto” queste sue capacità di sceneggiatore e regista sono evidenti, ma si caricano di sovrastrutture e di complicazioni narrative e visive che in qualche modo affogano la struttura del film.
Innanzi tutto, Carrisi sceglie di costruire la fabula affidandosi a due strutture narrative che scorrono parallelamente: da un lato, le scene ambientate nella stanza di ospedale tra il dottor Green e Samantha; dall’altro, l’indagine di Genko che cerca il rapitore. La narrazione procede con montaggio alternato fino al plot twist finale che disvela allo spettatore la verità delle vicende. Oltre a questo, c’è poi l’innesto di un’ulteriore linea narrativa composta dai flashback di Samantha, che ricorda il tempo passato nel labirinto, prigioniera di un rapitore sconosciuto e invisibile, che le impone un gioco continuo per la sopravvivenza.
Se il tema principale è la trappola del labirinto mentale in cui ogni spettatore si rinchiude affidandosi esclusivamente a ciò che vede (non vedendo) in una pulsione scopica che è una mise en abyme di menzogne e verità che s’intrecciano e confondono, Carrisi ci mette dentro altre tematiche. Il redde rationem di Genko con la propria vita alla fine del percorso e il cercare una sorta di riscatto morale. Poi, il personaggio di Linda (Caterina Shulha) giovane squillo ermafrodita e il rapporto equivoco e paterno con Genko: lei vive in un appartamento dai colori saturi, dove prevale il rosso, e pieno di sculture e immagini di unicorni. Il luogo diventa il centro in cui si compiono degli snodi narrativi importanti della lotta tra Male e Bene. Infine, la pedofilia e il male fatto ai bambini. Tutti temi che Carrisi a volte rende coerenti con i percorsi narrativi principali, altre volte cita in modo implicito solo per portare avanti la detection di Genko, finendo però così col deragliare dai binari del racconto.
Il regista e scrittore italiano sceglie poi una cifra stilistica più psicanalitica, rifacendosi a una cinematografia americana che va da “Donnie Darko” (il riferimento della maschera del coniglio e del fumetto di Bunny è un rimando esplicito) al cinema e alle atmosfere di David Lynch. Se il modello principale resta Dario Argento – l’uso del colore in modalità drammaturgica, le scenografie claustrofobiche del labirinto – è invece indubbio che le citazioni del coniglio e di intere sequenze – come ad esempio quella nella casa nel bosco ai margini di un incendio notturno o nel bar vicino alla palude – appaiono debitori per atmosfere e stilemi alla serie web “Rabbits” e a “Inland Empire – L’impero della mente” del genio del Montana. Proprio il maneggiare questo materiale citazionistico così importante e pesante risulta il limite principale di “L’uomo del labirinto”, che visivamente e narrativamente si va a schiantare contro il modello di riferimento. Sembra che Carrisi abbia voluto compiere un passo troppo lungo e si sia fidato troppo delle sue capacità, rischiando molto ma risultando sconfitto.
Altro elemento negativo è la scelta di ambientare la storia in una città senza nome che appare una clonazione e una rielaborazione di un centro urbano del Sud degli Stati Uniti (potremmo trovarci in Florida o in Louisiana): in un caldo opprimente e strade vuote e colorate come se ci trovassimo all’interno di un cartoon (o un labirinto visivo fatto di stanze di un immaginario collettivo che rimanda al cinema e alla narrativa di genere statunitense). Ma il risultato appare più che finto, fasullo come se “nella traduzione si fosse perso qualcosa” (citiamo Seth Brundle in “La mosca” di David Cronenberg).
Infine, se Toni Servillo fa il suo dovere (anche se noi abbiamo preferito la sua interpretazione di Vogel in “La ragazza nella nebbia”), Dustin Hoffman con il suo dottor Green risulta a tratti imbarazzante nel delineare un personaggio che appare spesso imbambolato e spaesato. Mentre dobbiamo spendere belle parole per la Shulha e, soprattutto, per la Bellè che risultano le migliori in un cast a volte un po’ troppo macchiettistico.
Insomma, “L’uomo nel labirinto”, se da un lato conferma una certa abilità di Carrisi, dall’altro lato risulta un passo indietro per aver troppo osato, non riuscendo a controllare una materia visiva che alla fine ha travolto il proprio demiurgo.
cast:
Toni Servillo, Valentina Bellè, Dustin Hoffman, Caterina Shulha, Vinicio Marchioni
regia:
Donato Carrisi
titolo originale:
L'uomo del labirinto
distribuzione:
Medusa
durata:
130'
produzione:
Colorado Film, Gavila
sceneggiatura:
Donato Carrisi
fotografia:
Federico Masiero
scenografie:
Tonino Zera
montaggio:
Massimo Quaglia
costumi:
Patrizia Chericoni
musiche:
Vito Lo Re