Tra genere d’autore e prodotto industriale
Il cinema italiano è coinvolto tutto quando produzioni ambiziose ne rimarcano la volontà di riportare in sala la trattazione del genere. Da qualche tempo si discute del riflusso di genere e se ne discute come fossero spinte per sottrarsi dall’impasse della commediola di consumo. Dal cinema criminale del teatro urbano dei vari Garrone, Sollima e Caligari, agli horror “The End?” e “Wicked Gift”, alla commedia noir dei recenti “Smetto quando voglio” e “Non ci resta che il crimine”, per finire nel fantastico con “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Il racconto dei racconti”, si evince una voglia di tornare a raccontare secondo i generi, di recuperare stili e linguaggi codificati da e per il medium.
“Il primo re” calca lo stesso percorso di rivalutazione e riformazione, ribadendo come la forza di un autore passi anche dal potere di chi produce, di chi rischia nel prodotto per dare voce al regista e alla sua opera.
Matteo Rovere probabilmente non può considerarsi “autore” in quanto tale, non ancora almeno, e la sua tendenza la si evince dalle interviste in cui chiama i film “prodotto industriale”, cosciente che l’arte deve sapersi vendere senza snaturarsi o corrompersi e senza morire nel popolare d’accatto.
Il regista romano si sta conquistando spazio nel panorama produttivo, mentre nella (ri)trattazione cinematografica[1] del mito di Romolo e Remo riprende le redini della regia per dargli una rappresentazione realistica. I due fratelli, da cui gli annalisti romani e greci fanno discendere allegoricamente la stirpe romana, sono pastori dell’VIII secolo a.C. che si scontrano con un territorio selvaggio e popolazioni ostili. Il conflitto inscenato è tra l’ateismo sostitutivo al panteismo di Remo e il conservatorismo pacifista di Romolo.
Quello del “Primo re” è un cinema che esonda, come la prima sequenza del Tevere la quale restituisce il mito alla plasticità degli eventi e della rappresentazione scenica: il gusto della trattazione filologica nei dialoghi e nelle scenografie, la luce naturale della fotografia (Daniele Ciprì) incanalata nella lente anamorfica che riempie il quadro, gli effetti speciali e sonori coordinati col trucco prostetico, le musiche di Andrea Farri sono tutti elementi che concorrono a ingigantire il senso di immedesimazione più che di ricostruzione.
La potenza con cui si mostra il film di Rovere non è tanto riscontrabile nel costo monetario (7,5 milioni di euro[2]) quanto nello sforzo visibile nella quantità e qualità degli oggetti in scena, la coerenza nello sceneggiare un mito calato nel realistico, la forza di alcuni quadri del territorio laziale (girato tra le località di Nettuno, Manziana e Monterano). Rovere dimostra di avere la bravura registica e di poter tenere assieme un film imponente e difficile da contenere, che però nel preservarsi costantemente perde la vis potenziale di inventare e divenire un unicum autoriale.
Sanguine fratres
A forzare lo sguardo, “Il primo re” sembra ambientato in una proto-suburra degli ultimi noir nostrani, con i due gemelli a fronteggiare la furia ostile dei territori di confine (la palude, le terre fangose, il bosco) per emergere e scuotere con la forza il vigente ordine sociale; l’aruspice come una femme fatale. Conservatorismo contro una sostituzione al divino terrorizzante poiché inconoscibile. Il travaglio dei gemelli è emotivo prima che politico, spirituale (“tu mi confondi”, dice Remo all’aruspice) prima che fisico. A questo si deve la scelta di spogliare il racconto dall’epica e dagli orpelli che le fonti storiografiche riportano. La sottrazione si accompagna alla ricerca del film arcaico, sanguinario e filologico.
Rovere condivide con il cinema americano una scelta artistica e registica, attingendo a quegli stilemi per farne un prodotto il meno possibile localizzato. In “Veloce come il vento” si era divertito a imitare le scene d’azione di “Ronin” e anche “Il primo re” condivide legami fraterni col cinema d’avventura di una serie d’autori.
Gli eccessi di furore di “Valhalla Rising”, insieme alla rappresentazione storica primigenia e aracaica condivisa, seppure distanti nel tempo, suggeriscono un primo influsso dominante. Probabilmente le assonanze più evidenti sono con “Apocalypto” di cui per fortuna epura alcune scelte didascaliche e ridicole di scrittura.
Purtroppo, però, la mano di Rovere si ferma un attimo prima di raggiungere quella personalità e pur rubando alacremente com’è consueto fare, non gli riesce la mimesi, piuttosto una copia meno solida dell’originale. Alcune scelte, soprattutto nella trattazione della violenza, sembrano circolari, ripetizioni necessarie a farne un prodotto muscolare intrattenente e piuttosto scontato se non grottesco (i ralenti sulla furia di Remo, l’aruspice all’albero ferita).
Laddove l’occhio di Rovere vorrebbe coniare l’impressionismo malickiano, se non addirittura herzoghiano, decelerando l’avventura, il tentativo si frantuma presto in una trattazione soltanto abbozzata, non pienamente convinta. E i pochi tentativi di soddisfare lo sguardo (il volo d’aquila del drone) non trovano compiutezza espressiva, apparendo movimenti di macchina forzati, incastrati nel processo di montaggio.
Il risultato è piacevole, forse troppo contento di essere convenzionale e interpretabile, alla portata di una facile naturalezza (penso a quanto abbia rischiato Ben Weathley con “A Field in England”).
La difficoltà nel coniugare due anime così lontane di cinema, come le fonti cinematografiche di Rovere hanno fatto, non pregiudica un prodotto unico da cui la produzione italiana possa trovare il coraggio di continuare. “Il primo re” di Matteo Rovere è un grande film di impegno produttivo, in questo senso riuscitissimo e coraggioso come pochi se ne sono visti negli ultimi anni, ma che nel panorama internazionale fa fatica a collocarsi. Punto di partenza dal quale Rovere potrà (ri)cominciare.
[1] Il primo a portare su schermo Romolo e Remo fu Sergio Corbucci nel 1961: “Romolo e Remo”, classico sandalone muscolare al crepuscolo.
[2] Fonte: Variety.com
cast:
Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Massimiliano Rossi, Tania Garribba, Vincenzo Crea
regia:
Matteo Rovere
distribuzione:
01 Distribution
durata:
127'
produzione:
Groenlandia, Gapbusters, Rai Cinema, VOO, BeTV
sceneggiatura:
Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere
fotografia:
Daniele Ciprì
scenografie:
Tonino Zera
montaggio:
Gianni Vezzosi
costumi:
Valentina Taviani
musiche:
Andrea Farri