"Non devi rimproverarti per come alla fine è venuto su questo qui!"
Nel 2004 Alfonso Cuarón è uno stimato regista messicano che tenta di emergere nell'ambiente dei cineasti
latinos insediatisi a Los Angeles: la sua opera precedente,
"Y tu mamá también", ha rappresentato una sorta di ritorno alle origini dopo due film in terra statunitense e ha ottenuto un discreto successo, venendo pure candidata per la miglior sceneggiatura agli Oscar 2003. Nel 2004 il cinema del regista di Città del Messico ha già mostrato alcuni dei suoi tratti stilistici più evidenti (grande mobilità della mdp,
long take reiterati, etc...) e comincia a definire la poetica che si concretizzerà solo a partire da
"I figli degli uomini". Ed è in questo frangente che il promettente
auteur Alfonso Cuarón prende parte alla realizzazione del terzo capitolo di una saga fantasy ultra-mainstream.
Il terzo film dell'octalogia del maghetto si giova di conseguenza di un radicale cambio al vertice, per quanto l'abbandono di Columbus (che comunque rimane tra i produttori) non comporti significativi cambiamenti tra la
crew, e perciò si configura come un tentativo di svecchiare una saga che già al
secondo capitolo mostrava una certa stanchezza. Ne deriva che "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban" è, probabilmente insieme al
settimo, l'episodio più divisivo della serie. Infatti la regia di Cuarón si allontana in maniera palese da quella morbida e spielberghiana del predecessore, riempiendo il film dei propri stilemi e optando per una fotografia (di Michael Seresin) ben diversa da quella calda dei due film precedenti e invece giocata sul contrasto fra tonalità sempre più cupe ed un aspetto ben più realistico. Anche le musiche di John Williams sono differenti, più mutevoli e rarefatte, e soprattutto vengono utilizzate in maniera ben più calibrata rispetto al dittico
columbusiano.
Nel corso delle riprese Cuarón ha più volte dichiarato di voler essere fedele in primo luogo allo spirito dell'opera di JK Rowling che alla lettera e, in virtù del grande apprezzamento espresso dall'autrice dopo la visione della pellicola, può ritenersi soddisfatto. Il problema (circostanziale, certo) è che tale scelta ha portato a realizzare un'opera per la prima volta effettivamente distante in alcuni punti dal romanzo di origine e la cui sceneggiatura, sempre di Steve Kloves, soffre a volte dell'eccessiva concentrazione delle vicende. Ne consegue che il regista messicano è riuscito ad apportare miglioramenti alla saga (cioè
mise en scène e gestione dei tempi narrativi) laddove essa ha precedentemente dimostrato una certa debolezza ma portando così allo svilupparsi di problematiche ove non prima presenti. Difatti se la recitazione è sempre stata il fiore all'occhiello della serie è in questo capitolo che, al netto delle grandi interpretazioni dei "soliti noti" e delle significative aggiunte di Gary Oldman e Timothy Spall, i giovani protagonisti e alcuni comprimari si dimostrano a tratti incapaci di offrire un più adeguato
range emozionale, come da copione.
Pertanto "Harry Potter 3" si configura come un capitolo paradossale del
franchise anglo-statunitense, di efficacia ed intelligenza (si noti l'interessante uso che si fa degli elementi grotteschi già presenti nel romanzo) sicuramente maggiori rispetto alle due parti precedenti ma anche più discontinuo nello svolgimento (prevedibile dato che da un libro lungo un quarto più degli altri sia stato tratto un film di 20' più breve) e a volte eccessivamente concentrato sul virtuosismo registico (critica rivolgibile a tutto il cinema di Alfonso Cuarón) a discapito della narrazione. Quisquilie, probabilmente, per il cineasta messicano che dopo aver dimostrato di essere capace di gestire una produzione di questo calibro ha dato il via alla sua ascesa nel pantheon hollywoodiano, culminata con il trionfo di "
Gravity" una notte di marzo di 10 anni dopo. Quando l'intera saga di "Harry Potter" era giunta al termine e, forse, già un po' dimenticata.