Nel 2004 l'indimenticato Satoshi Kon dà vita alla serie "Paranoia Agent", in cui un misterioso ragazzo armato di una mazza da baseball aggredisce gli abitanti di una metropoli. Il maniaco è chiamato Shonen Bat e con l'avanzare della serie ne comprendiamo sempre più il tremendo valore simbolico, il suo essere una entità che si nutre delle angosce e delle paranoie della società odierna, restituendole nella forma dell’incubo.
Questa premessa, apparentemente fuori sincrono e assai lontana dalla fortunata saga di "Halloween", vale di fatto a inquadrarne l’ultimo capitolo firmato da David Gordon Green, che, a tre anni dal reboot, impugna nuovamente la macchina da presa per narrare le imprese del leggendario Michael Myers. Una leggenda che sin dall'incipit ci viene offerta come tale quando in un pub di Haddonfield, durante il festoso open-mic di Halloween, un uomo afferra il microfono per cantare le gesta di coloro che sopravvissero alla mattanza consumatasi nella cittadina quarant'anni prima e immortalata da John Carpenter - qui per l'occasione produttore esecutivo e rifacitore del proprio celebre tema musicale - nel capolavoro del 1978.
Occorrono, però, alcune precisazioni: il cantastorie non è uno stand-upper qualunque e così neppure la serata, come da tradizione intitolata alla notte delle streghe. Di più: l'uomo è un ormai attempato Tommy Doyle, che - data la congiunta volontà di Carpenter e Green di creare una continuità col solo film del 78 e ignorare i sequel - avevamo lasciato decenne, disperato e in cerca di aiuto mentre veniva spinto alla fuga dalla sua babysitter Laurie Strode. Con lui vi sono l'infermiera Marion Chambers - di cui un breve stralcio dell'originale carpenteriano richiama le vicissitudini - e Lonnie Elam - cui il film si premura di inventare un passato da sopravvissuto. Quanto alla notte, è la stessa in cui si chiudeva il precedente capitolo, al punto che mentre gli avventori brindano alla memoria dei vivi e dei morti - in un gesto assai posticcio da palinsesto di Rete 4 -, il corpo di Micheal Myers sta per essere travolto dalle fiamme nella prigione di fuoco in cui le signore Strode l'hanno cacciato.
Da questi pochi elementi due cose si intuiscono: che il film sarà strutturato attraverso una serie più o meno esplicita di rimandi ai motivi del capostipite - senza tuttavia che si indugi in citazioni di prammatica e, anzi, con intento demistificatorio - e che David Gordon Green ha maturato per esso ambizioni di un certo livello. Ce ne accorgiamo quando, dopo circa mezz'ora di film, ancora non siamo in grado di dire chi ne sia il protagonista, svolta inconsueta per una saga che negli anni ci ha abituato a schemi sostanzialmente immutabili. Accantonato il protagonismo della scream queen, Green frantuma il film in una serie di accadimenti sconnessi, il cui solo ordine è dato dal cocciuto asservimento al principio dell'Idiot Plot, ossia quella particolare configurazione dell'intreccio, per cui la coerenza interna delle parti si dà per il tramite della incoerenza - quando non apertamente della stupidità - dei comportamenti di tutti i personaggi. L'assunto si fonda su un principio di maggioranza e vogliamo qui incrociarlo con la parafrasi di una celebre intuizione di Umberto Eco relativa a "Casablanca"[1]: un singolo idiota all'interno di una storia suscita l'esasperazione dello spettatore, ma, se tutti i personaggi investono coerentemente le proprie risorse di stoltezza, i gesti e le azioni che ne seguono non potranno che traghettare il film in territori inesplorati.
Non si può credere a quanto a lungo le porte siano squadrate con sospetto dalle vittime prima che Michael si manifesti a esigere il suo tributo di sangue. O a quanti futuri cadaveri scelgano con cura di separarsi dal gruppo nelle loro esplorazioni in cerca del mostro. O a quanti ingressi rimangano accuratamente incustoditi. Viene da chiedersi se qualche cinema di Haddonfield si sia mai premurato di proiettare almeno il primo capitolo di "Scream" per l'edificazione dei propri cittadini.
Ebbene, le ragioni di tanta stupidità e incoerenza si fanno d'un tratto evidenti quando, stanchi di arrendersi passivamente alla macelleria di Michael, gli avventori del pub, guidati da un esaltato Tommy Doyle, si (dis)organizzano in gruppi di vigilantes armati di mazze da baseball, subito voltati nella più classica delle folle inferocite a caccia del mostro.
È una epifania. D'un tratto tutto sembra andare a posto e crediamo di intuire dove tanta idiozia vada a parare nelle intenzioni del regista. Da un lato i brutali omicidi di una forza organizzata e tutta intesa al suo mortale, quanto semplice, scopo; dall'altro la furia animalesca della folla, acefala e brutale quanto quella di Michael, ma col sovrappiù di essere priva di direzione per eccesso di volubilità. Da incarnazione quasi metafisica di un male atavico e irreversibile, il protagonista col volto mascherato si fa polarizzatore degli istinti più triviali del popolo, non più corpo ma simbolo (da qui l'avventato richiamo al capolavoro di Kon) di un male di vivere (sociale) che ha infettato fino alla radice l'America trumpiana, e non solo.
Certo, il Messaggio - la maiuscola è d'obbligo - è un po' ingombrante, tuttavia questa apocalisse della stupidità per un attimo ci conquista e la ridicola scena all'ospedale, centro di gravità del film, avrebbe potuto esserne il degno apice, se non fosse che il tutto si risolve in pochi istanti, con una frettolosa presa di coscienza a mondare i peccati dei facinorosi.
Anziché l'incendio che era stato preparato, tutta la maestria di Green ci restituisce appena un fuocherello fatuo, per poi subito disinteressarsene, quasi a scusarsi dell'ingombro recato a un film che doveva parlare d'altro.
E, in tutto ciò, che ne è della coreografia delle morti, ossia il balsamo anche per l'horror più sgangherato? Forse perché lasciato di fatto a gozzovigliare nel suo mondo che mescola infantilismo e orrore mentre il regista è altrove, Michael - che assecondando una parafrasi mortuaria del motto veni, vidi, vici è di norma assai contenuto se non nel numero di vittime almeno negli spargimenti di sangue – svela qui una grande creatività nell'umiliare i corpi delle sue vittime. Lasciate appese per la mascella alle punte di un'inferriata, composte in macabri caroselli al parco giochi, tramutate nella versione particolarmente ingombrante di una coltelliera, le vittime sono qui molte e talvolta inattese, poiché Green non si dà cura di eliminare dal gioco anche personaggi verso i quali c'era stato un certo investimento di simpatia da parte dello spettatore, il che rimane, infine, uno dei rari motivi di interesse per questo sgangherato filmetto.
Horror che non spaventa, commedia demenziale ma seriosa, film moralizzante dalla tesi confusa, "Halloween Kills" è un'operetta che vive di contraddizioni, sebbene ciò suoni più fascinoso di quanto di fatto non sia il risultato. E se va dato atto a David Gordon Green di essersi impegnato in un lavoro di demitizzazione sulla carta assai interessante, è pur vero che esso avrebbe richiesto maggior coraggio, mentre, per contro, la messa in scena è di rado capace di prodursi in un adeguato compimento delle istanze moraleggianti del regista.
[1] "Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento", Cfr. U. Eco, Dalla periferia dell'impero, Bompiani, Milano, 2003.
cast:
Jamie Lee Curtis, Judy Greer, Andi Matichak, Will Patton, Anthony Michael Hall, Nick Castle
regia:
David Gordon Green
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
105'
produzione:
Blumhouse Productions, Miramax, Universal Pictures
sceneggiatura:
David Gordon Green, Danny McBride, Scott Teems
fotografia:
Michael Simmonds
scenografie:
Richard A. Wright
montaggio:
Timothy Alverson
costumi:
Amily Gunshor
musiche:
John Carpenter, Cody Carpenter, Daniel Davies