Michael Myers è tornato. A quarant'anni di distanza dal capolavoro
carpenteriano e dagli efferati crimini di quella indimenticabile "notte delle streghe", David Gordon Green dirige il suo reboot, scegliendo di rifarsi direttamente alla pellicola del '78, ignorando l'evoluzione della storia di tutti i capitoli intermedi, compresi i due
film di Rob Zombie che avevano rilanciato il personaggio di Myers a fine anni Duemila.
Ed è proprio dalle due pellicole di Zombie che quest'ultimo capitolo più si discosta, per ritornare alla dimensione originaria del killer mascherato per eccellenza: I due film del 2007 e del 2009 avevano infatti in un certo senso umanizzato la figura di Michael, innanzitutto dandogli un volto, quello di Tyler Mane, e mostrando come la malvagità dell'omicida non fosse altro che il frutto di traumi infantili e dell'incapacità della società di venire incontro all'emarginazione del ragazzo, sfociata proprio a causa di questo in violenza incontenibile: insomma i film di Zombie si proponevano (e in questo stava il loro
proprium all'interno della saga) di negare la dimensione ontologica al male e di mostrarne la natura di fenomeno sociale, causato da traumi e dalla mancanza di cure appropriate.
Green nega la possibilità zombiana e ritorna all'idea carpenteriana di Male assoluto: Michael non è una vittima, ma l'essenza stessa del male, con tutte le sue caratteristiche: l'assenza di un volto (e la regia si dimostra molto attenta nel non inquadrare mai il viso del killer nelle sequenze in cui non indossa la maschera, mostrandolo piuttosto di spalle o fuori fuoco), l'assenza di parola (che non è qui il frutto dell'ennesimo trauma, ma l'impossibilità ontologica di assegnare il dono del
logos al male, come a sottolineare la contrapposizione tra forza creatrice e negazione distruttrice), una dimensione sovrannaturale che si articola qui nella forza fisica estrema di Myers. Manca l'ubiquità perché se nel film di Carpenter le apparizioni del
villain erano impreviste, inaspettate e impossibili da intuire a priori, qui la vicenda segue le mosse del killer e dunque gli assegna, più o meno sempre, una locazione.
Ma tolta questa piccola carenza ciò che riemerge nel film di Green è la concezione del Male come di una pulsione universale, di un'energia distruttrice e in ciò si situa anche una certa critica all'eccesso di positivismo scientifico o di buonismo sociale, posizioni rappresentate rispettivamente dal dottor Sartain, il medico che segue il caso Myers (e che è protagonista di una delle sequenze più interessanti e intense del film, in cui si sottolinea come la natura di Myers sia un'esagerazione esplosiva di un principio che tuttavia risiede in ogni uomo), e dalla coppia di giornalisti, disposti ad assolvere i crimini di Michael come frutto di errori della società, ma che accusano Laurie in quanto divorziata (e che svelano quindi da subito la loro ipocrisia). Questi personaggi, che condividono la prospettiva zombiana, si contrappongono alla stessa Laurie, che, anche grazie al ritorno di Jamie Lee Curtis, diventa un ulteriore tassello di collegamento con il film capostipite della saga.
Ma Laurie non è più la
final girl che era nel '78. È una nonna divorziata che ha trasformato la sua casa in un bunker anti-killer e che ha tramutato pian piano la paura, in cui da quarant'anni è costretta a vivere, in una tenace volontà di sopravvivere, verso la quale cerca di indirizzare anche figlia e nipote. Laurie diventa principio assoluto contrapposto a Myers, interpreta la perenne lotta universale tra pulsione di vita e pulsione di morte, da vittima si trasforma in carnefice e la sfida con la propria antitesi si trasforma in una caccia a due direzioni in cui sia Michael che Laurie sono allo stesso tempo cacciatori e prede. La trasformazione che Green opera nel concetto di
final girl è giustificato dal tentativo di indagare gli effetti del male su coloro che ne entrano in contatto (Laurie in primo luogo, ma anche i giornalisti o il dottore). In questa indagine l'essenza del film si fa metacinematografica: cos'è infatti lo slasher, se non il tentativo di metterci a tu per tu con il male, con il principio di morte che alberga dentro a ognuno di noi e del quale siamo chiamati a rispondere?
È sicuramente una sfida non da poco quella di misurarsi con una saga cult di tale spessore, ma Green sembra riuscirci e anche dal punto di vista registico, seppur senza intuizioni geniali, se la cava: da un lato rifacendosi ad alcuni aspetti del film di Carpenter che ne provino la discendenza diretta (la colonna sonora ad esempio, ma anche il look dei personaggi, che richiama un po' quello dell'epoca), dall'altro dimostrando di saper gestire il materiale di un genere molto ben determinato: dall'utilizzo del
gore fino alle considerazioni già fatte sul personaggio di Myers.