A distanza di sei anni da "L'altro volto della speranza", ritroviamo Aki Kaurismäki cambiato rispetto alle pellicole che ha realizzato dagli anni Duemila in poi. Si tratta di un viaggio a ritroso nel suo cinema, alla scoperta di un profilo intransigente che aveva caratterizzato la sua produzione nel periodo che andava dalla metà degli anni 80 alla metà degli anni 90. Nel corso di quel decennio, pur non rinunciando alla sua sardonica arte dello sberleffo e al suo particolare gusto per riprendere il mondo attraverso una lente che tutto deformava attraverso un registro bizzarro, Kaurismäki aveva mostrato al mondo anche un altro aspetto di sé, qualcosa che lo avvicinava più all'universo bressoniano e lo allontanava dal suo padre putativo Charles Spencer Chaplin. Ne "La fiammiferaia", per citare il titolo-simbolo di quegli anni, il regista finlandese trasformava l'ironia in rabbia e il sarcasmo, che pure era sempre lì a fare da sfondo alle vicissitudini umane, forniva la sponda per dare libero sfogo al conflitto, che fosse tutto interiore, oppure sociale o anche culturale, poco contava. Ma emergeva chiaro che il buonismo e la pulsione al sentimento positivo non poteva e non voleva, nel cinema di Kaurismäki, allontanare dallo sguardo dello spettatore il dramma della discriminazione di classe, dell'ingiustizia lavorativa e della schiavitù economica.
Addolcito dagli anni e da una consapevolezza tecnica del mezzo filmico che non ha fatto altro che consolidarsi nel corso del tempo, in "Foglie al vento" troviamo nuovamente quel cineasta lì, quasi ossessionato dal brutto che circonda i suoi personaggi al punto da impedire loro il raggiungimento dell'agognata felicità. Gli ostacoli che si frappongono tra Ansa e Holappa e il coronamento di un'ipotesi di relazione sentimentale tutta da scrivere sono molteplici e partono dall'incubo della guerra in Ucraina che travolge tutto, in ogni forma, dalle comunicazioni alla radio all'angoscia che un paese come la Finlandia respira sul suo territorio. Mai come in "Foglie al vento" le notizie dal mondo giocano un ruolo così cruciale nelle vicende umane di un film di Kaurismäki, a dimostrazione di quanto, al netto dell'essere più o meno pacifisti, l'espansione russa venga percepita come un reale incubo a Helsinki e dintorni. I contorni fiabeschi che avevano segnato tutti i lungometraggi da "L'uomo senza passato" in poi restano una scenografia narrativa che, stavolta, non può ignorare quanto accade ai confini del paese: il mondo reale, dunque, irrompe nella vita dei personaggi come mai era successo in altre occasioni. La precarietà economica e sentimentale, dunque, è amplificata e peggiorata dai venti di guerra, dall'insicurezza nazionale (siamo nell'anno cruciale in cui la Finlandia abbandona la sua neutralità ed entra nella Nato). Anche il cinema di Kaurismäki abbandona il limbo spazio-temporale in cui le vicissitudini dei suoi protagonisti avevano sempre luogo.
"Foglie al vento" ritorna alla tradizione nel momento in cui lo sguardo politico dell'autore incontra quello più romantico. Il registro torna in questa fase del film a essere quello più consueto: un uomo e una donna, solitari e afflitti da problemi personali (lui alcolizzato, lei depressa e disoccupata), si sfiorano, si mancano, si cercano, intuiscono una possibile felicità grazie al sentimento, ma la vita si mette di mezzo con tutto quanto può succedere sul versante pubblico della quotidianità di entrambi. Qui, ancora una volta, riemerge un Kaurismäki diverso, più arrabbiato, più indignato, meno fatalista nel mettere in scena le ingiustizie della comunità. Come ha ribadito lui stesso a Cannes, la Finlandia vive un paradosso per cui non ci sono cittadini di serie A e di serie B come in molti altri paesi; bensì ci sono cittadini che hanno tutto e che vivono al meglio delle possibilità che una realtà iperproduttiva come quella finlandese assicura e poi persone di serie C, che vivono non ai margini di questa società perfetta, ma ne sono totalmente esclusi, perché impossibilitati a stare al passo con una velocità e un'irreprensibilità molto esigenti. Un ritardo di quattro minuti sul posto di lavoro è stigmatizzato, portare via da un supermercato un cibo scaduto per poterlo consumare a casa è causa di licenziamento, segnalare una violazione di un collega è motivo di encomio. Eppure, a fine turno, in Finlandia si beve moltissimo e l'alcolismo non è più un elemento di costume, diventa una piaga sociale che Kaurismäki, pur sapendo bene di essere in questo parzialmente autobiografico, racconta non risparmiando il degrado fisico e psicologico che l'abuso di bevande alcoliche provoca, a mo' di effetto domino, proprio su quei soggetti che sono espulsi dal mercato del lavoro e che restano indietro rispetto alla propria comunità.
Tormentato come sempre dalla posizione della macchina da presa sulla scena, determinato a sparire dietro l'obiettivo ed essere semplicemente un collettore di immagini e situazioni da assemblare in fase di montaggio, il cineasta finlandese ribadisce in "Foglie al vento" il gioco di specchi e di schermi che ha fatto la sua fortuna personale, permettendogli di vivere in realativa tranquillità, alla periferia estrema dell'impero cinematografico mondiale, nonostante il suo stile e la sua cifra autoriale siano talmente ben connotate che diventa difficile non considerarlo all'interno della categoria dei veri e propri geni della Settima arte. E così, seppure si voglia accettare l'idea di un autore invisibile, con una libertà di movimento tecnico limitato in fase di realizzazione, ciò che comunque finisce dentro ogni singola inquadratura ha una pienezza nel comunicare a chi guarda come sempre annichilente; è così nei dettagli che puntualmente riempiono il quadro attorno al protagonista di turno, dalle locandine dei film amati in una vita intera appesi a una parete (compare a un certo punto persino il poster di "Breve incontro" di David Lean) ai piccoli oggetti che caratterizzano l'interno di una casa, fino all'abituale gioco di contrasti cromatici, da sempre una firma nell'immagine impressa su pellicola da Kaurismäki, l'espediente più immediato per colorare letteralmente la scena e restituirne un tono disincantato e da racconto fantasy, in netta contrapposizione con il dramma di ciò che accade.
Osservatore e cantore del mondo proletario discriminato, autodefinitosi come un autodidatta prestato al cinema, incapace di variare approccio e modalità di racconto, Kaurismäki resta comunque un illustre critico cinematografico (nonostante, anche su questo, tenti in tutti i modi di schermirsi, alla maniera di un Takeshi Kitano europeo): la sua formazione è presente sempre nei suoi film, ma in "Foglie al vento" il cinema che ne ha segnato l'esistenza fa un suo ingresso prepotente, a partire da una significativa e straordinaria scena dentro una sala, in cui Ansa e Holappa vanno a vedere "I morti non muoiono" di Jim Jarmusch, scelta straniante ma potente, avvalorata dall'effetto corto-circuito all'uscita dal cinema. Se due cinefili incalliti si trattengono all'esterno avventurandosi in un'analisi assai improbabile in cui entrambi vedono riferimenti a Bresson o a Godard, i due innamorati invece, molto più semplicemente, considerano di aver riso molto e che erano anni che non si divertivano così durante una proiezione. Più che un tributo al collega americano (i punti di contatto tra l'uno e l'altro sono molteplici, oltretutto), un'esaltazione dell'esigenza primigenia della Settima arte, che ha il compito di intrattenere, strappare sorrisi e suscitare emozioni. Da sempre lontana dal cinema d'impegno dei fratelli Dardenne o di Ken Loach, l'osservazione sociale e politica in Kaurismäki è sempre profondamente umanista e individualista: a lui interessa la conseguenza personale, l'effetto emotivo che le storture del lavoro e dell'economia provocano in un uomo o una donna, non gli interessa il furore politico dei colleghi citati. Per questo, con "Foglie al vento", egli realizza un film che chiude una vecchia storia e apre, forse, un nuovo capitolo della sua carriera, in cui il rigore del suo amato Bresson incontra il tono stralunato delle comiche di Buster Keaton. Un luogo ideale, quello del cinema del Maestro finlandese, in cui l'arte e la finzione possono essere i rimedi più efficaci nei confronti delle storture della realtà. Memorabile il dialogo finale tra i due, quando Ansa e Holappa si ritrovano dopo una convalescenza ospedalizzata di lui e lei lo riaccoglie in compagnia di un cane trovato nel frattempo per caso. "Come si chiama questo cane?", chiede lui, "Si chiama Chaplin", risponde lei. Musica, titoli di coda e applausi.
cast:
Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu, Matti Onnismaa
regia:
Aki Kaurismäki
titolo originale:
Kuolleet lehdet
distribuzione:
Lucky Red
durata:
81'
produzione:
Sputnik, Bufo
sceneggiatura:
Aki Kaurismäki
fotografia:
Timo Salminen
scenografie:
Ville Grönroos
montaggio:
Samu Heikkilä
costumi:
Tiina Kaukanen