«È difficile intraprendere questo lavoro, avvicinarsi a questo enorme fardello di sogni» (Werner Herzog, "La conquista dell’inutile" [1])
Mai come in questo caso le parole pronunciate da un regista nell’iniziare ad affrontare la produzione di un film possono adattarsi anche a chi, dal ben più confortevole punto di vista del commentatore, si approccia all’analisi di un’opera che è entrata di diritto nella storia del cinema del Novecento, e che merita pertanto un posto tra le "pietre miliari" della settima arte.
Mai come in questo caso quelle parole vanno a rappresentare pienamente un’opera e l'ideale (cinematografico e produttivo) che essa porta con sé.
Non c’è definizione più opportuna per "Fitzcarraldo" di quella che, per l’appunto, ha coniato il suo autore: "Fitzcarraldo" è un «enorme fardello di sogni», un «heavy burden of dreams», per usare le parole che hanno (anche) dato il titolo al documentario girato da Les Blank ("Burden of Dreams"), che costituisce il making of "ufficiale" (o quanto meno ufficioso) del film.
E per analizzare e sviscerare questo «enorme fardello di sogni» occorre necessariamente (e paradossalmente) procedere con metodo e ordine rigorosi, per un’opera che è invece passionale e romantica, impulsiva e talvolta irrazionale.
La genesi
«Chi sogna può muovere le montagne» (Brian Sweeney Fitzgerald / Klaus Kinski)
In più occasioni Werner Herzog ha raccontato come l’idea che sta alla base di "Fitzcarraldo" fosse ispirata all’impresa che un quasi omonimo magnate della gomma, Josè Fermin Fitzcarrald, portò a termine in Amazzonia, smontando la sua nave per ricostruirla al di là di un istmo di terra, trasportandola così da un fiume a un altro, che era altrimenti irraggiungibile.
La variante utilizzata da Herzog nel suo film - ossia quella di portare sì la nave oltre l’istmo, ma tutta intera, trascinandola sopra e poi giù da una montagna - non è tuttavia di poco conto, e si rifà, infatti, ad alcune idee e pensieri avuti dal regista bavarese durante le sue non infrequenti, stravaganti elucubrazioni.
In particolare, il soggetto di "Fitzcarraldo" deriva innanzitutto, a detta dello stesso Herzog, da una sua "visione": «l’immagine di un grande battello a vapore su una montagna – la barca che si trascina tra i fumi grazie alla sua stessa forza, risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla e, in mezzo a una natura che annienta senza distinzione i deboli e i forti, la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli» [2].
Una visione su cui non può non aver influito la passione di Herzog per il volo, già resa oggetto di un’opera cardine della sua filmografia come "La grande estasi dell’intagliatore Steiner", ma anche di un film minore come "I medici volanti dell’Africa orientale" (e che tornerà in "Little Dieter Needs to Fly" e nel suo corrispondente fiction "L’alba della libertà"). Una passione che Herzog ha avuto fin da bambino e che in "Fitzcarraldo" si manifesta nella messa in atto di un’impresa tecnica - il superamento di un pendio da parte di una nave, appunto - che di fatto sfida le leggi gravitazionali (come fanno gli apparecchi volanti) e dunque le leggi della natura, con un movimento prima ascendente e poi discendente che emula il gesto del campione di salto con gli sci Walter Steiner.
Ma l’ispirazione per quella memorabile arrampicata viene ricondotta dal regista anche a una visita al sito paleolitico di Carnac, in Bretagna, ove sorgono complessi megalitici le cui origini sono ancora oggi dibattute. Herzog stava cercando delle location per "L’enigma di Kaspar Hauser" quando, affascinato da quelle costruzioni primitive, provò a ipotizzare una teoria sul loro innalzamento: la sua ipotesi fu quella di lunghe rampe di terra che avrebbero consentito di posizionare quegli enormi massi sulla cima di collinette al centro delle quali erano state scavate delle cavità. Dentro tali cavità sarebbero stati inseriti i massi, che scivolando avrebbero acquisito la loro posizione eretta [3].
Eppure, una cosa è la teoria, altro è portare a compimento un’idea che sulla carta può apparire relativamente elementare, ma che in realtà necessita, per essere attuata, di un immane sforzo produttivo.
La produzione
«Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto» (Werner Herzog)
"Fitzcarraldo" rappresenta senza dubbio l’opera più impegnativa e grandiosa di Herzog, almeno dal punto di vista produttivo, ma è anche, in generale, uno tra i lungometraggi più autenticamente folli mai realizzati. La storia di un sogno e di un sognatore è finita per diventare il sogno di un cineasta, quello di portare a compimento ad ogni costo un’opera le cui vicissitudini produttive cominciavano a essere a dir poco estenuanti, mettendo a dura prova anche l’entusiasmo apparentemente inscalfibile di uno stakanovista come Herzog, attentando alla sua concezione fisica, atletica e pseudo-agonistica della creazione di un film.
Solo le riprese hanno richiesto quasi un anno intero, per una produzione che nel complesso si è trascinata per almeno due anni e mezzo (quasi quattro considerando la preproduzione [4]). Tempi estremamente lunghi, durante i quali non mancarono incidenti, disgrazie e imprevisti di ogni sorta.
La lista è quasi interminabile.
Dall’opposizione ostile di alcune tribù indios, che impedirono di fatto ai membri della troupe di girare nella regione inizialmente prescelta per le riprese, minacciandoli e costringendoli – dopo aver appiccato il fuoco all’accampamento sul Rio Marañón – a spostarsi in un’altra zona del Perù (cosa che fece perdere almeno un anno a Herzog) [5].
Dalle accuse più disparate (quella di sfruttamento, di atrocità e di violazione dei diritti dell’uomo, ma anche e addirittura quelle di traffico d’armi e droga) che piovevano periodicamente dalla stampa, da alcuni organi locali e dalle associazioni per i diritti degli indigeni, locali ed europee, accuse che portarono al "processo grottesco" tenutosi in Germania, dopo un’opera di sistematica criminalizzazione e diffamazione da parte dei media [6].
Dai problemi economici, non solo dovuti alla carenza di finanziamenti per il film (che scontava un budget modesto, soprattutto in relazione alle ambizioni), ma anche personali del regista [7]. A quelli meteorologici, con l’anomala e surreale alternanza di periodi di siccità e piogge torrenziali, di piene e di secche.
Si va dai tentativi di concussione da parte degli ufficiali e amministratori locali, ai sentori di golpe che attraversavano il Perù (ma anche il vicino Ecuador) dopo il colpo di stato in Bolivia del 1980, con l’esercito peruviano pronto a sedare militarmente le manifestazioni di instabilità politica del paese, funestato da proteste e continui scioperi. Un clima tesissimo, peraltro esasperato dallo scoppio di un conflitto armato tra Perù ed Ecuador, la Guerra del Falso Paquisha (gennaio-febbraio 1981), proprio nel periodo in cui, finalmente, erano iniziate le riprese.
E ancora: dai guai fisici accusati da Herzog nel ’79-’80 (la lesione della vertebra cervicale), ai problemi avuti con gli attori, con il ruolo del protagonista inizialmente affidato a Jason Robards - affiancato nientemeno che da Mick Jagger - e poi al fido Klaus Kinski, quando Robards si ammalò gravemente e dovette abbandonare il film, non senza essere entrato in conflitto con il regista e non senza aver scatenato gli avvocati per una battaglia legale [8].
Dai capricci e dalle intemperanze dello stesso Kinski - attore feticcio ma anche eterno "best fiend", "miglior nemico" di Herzog - che litigava quotidianamente con la troupe e con la produzione, con lo stesso regista e con gli indios (che chiesero a Herzog – assolutamente seri – se voleva che "lo ammazzassero per lui"), ma che infine si dimostrerà un perfetto Fitzcarraldo, capace di momenti di felicità e di (un’assolutamente inedita) tenerezza [9].
Alle oggettive e generiche difficoltà logistiche dovute al fatto di girare in zone collegate alla civiltà soltanto per via aerea o fluviale, con tutto quel che ciò comportava in termini di approvvigionamenti e di possibilità di avere contatti e comunicare con l’esterno.
Se a tutto ciò si aggiunge l’ostinazione di Herzog, che non ne voleva sapere di filmare modellini [10], ma voleva portare una vera nave su una vera montagna, il quadro delle difficoltà produttive diventa completo. Questa sua insistenza fece peraltro perdere a Herzog l’appoggio della 20th Century Fox, che si era dichiarata interessata a produrre il film, ma che considerava "ovvio e scontato" il fatto di ricorrere a delle riproduzioni in scala da trainare su una collina ricostruita in studio, o al più in un giardino botanico, in entrambi i casi non troppo lontano da Los Angeles. Ma altrettanto "ovvio e scontato" [11] era il fatto che per Herzog la nave e la "collina" avrebbero dovuto essere reali e in scala 1:1, e che si sarebbe dovuto girare in Amazzonia. E alla fine Herzog ne utilizzò addirittura tre di navi: una, l’originale, per le riprese iniziali a Iquitos; le altre due - copie gemelle della prima - per la salita sulla montagna, per il finale e per la scena delle rapide (ove peraltro la nave si incagliò, facendo perdere altri mesi di tempo). E proprio la volontà di filmare una vera imbarcazione, a grandezza naturale, che si lanciava deliberatamente nelle rapide (quelle del Pongo de Mainique, che nel film diventerà il Pongo das Mortes), causerà non pochi problemi e inconvenienti, tra cui il ferimento del direttore della fotografia e operatore Thomas Mauch nel giorno definito da Herzog "il martedì di sangue", visto che oltre a quanto avvenne al suo collaboratore si registrò anche l’aggressione a colpi di frecce di due indios da parte di alcuni membri di una tribù di selvaggi che viveva poco sopra il Pongo de Mainique [12].
A questa sequela infinita di inconvenienti specifici si dovevano poi aggiungere i più disparati problemi organizzativi generici, quelli che riguardano la produzione di qualunque film e che in "Fitzcarraldo" venivano ampliati dal fatto di trovarsi in una terra straniera (quel Perù che era già stato location di "Aguirre, furore di Dio"), in luoghi difficilmente raggiungibili, nonché circondati da persone che si esprimevano in una miriade di lingue e idiomi e che vivevano in condizioni di povertà o addirittura pseudo-primitive – gli indios e gli abitanti delle regioni amazzoniche del Perù, che costituivano il grosso della manovalanza e delle migliaia di comparse utilizzate durante le riprese (si arrivò ad utilizzarne cinquemila contemporaneamente).
Il tutto con una macchina organizzativa assolutamente insufficiente se paragonata alle ambizioni del progetto: con una troupe formata, nel suo zoccolo duro, da sole sedici persone, Herzog girò un film che se fosse stato prodotto a Hollywood non avrebbe impiegato meno di duecentocinquanta professionisti a pieno servizio [13]. Ed è forse questo uno dei pochi (ma più significativi) tratti in cui si registra uno scarto – che per tutti gli altri aspetti tende ad annullarsi – tra impresa produttiva (lo fu, ma non di certo per i mezzi impiegati) e impresa oggetto della narrazione. Perché per il resto in "Fitzcarraldo" impresa narrata e impresa produttiva finiscono quasi per coincidere, andando a formare – o per meglio dire a confermare – uno dei tratti distintivi della poetica di Herzog.
Tra documentario e fiction
«Il pensiero di trasportare sulla montagna una nave gigantesca non mi spaventava più, anche se tutto in questo mondo carico di pesantezza dovesse dimostrarsi avverso» (Werner Herzog)
Un tratto caratteristico (e notorio) del cinema di Herzog è la commistione tra fiction e documentario, un aspetto che risale quanto meno a "Fata Morgana" (1971), il film con cui il cineasta bavarese fece registrare un netto cambio di rotta rispetto alle sue opere precedenti, talvolta anche originali e sui generis (come nel caso di "Anche i nani hanno cominciato da piccoli"), ma ancora non così profondamente innovative dal punto di vista strettamente cinematografico.
Che Herzog potesse riuscire a imprimere questo suo peculiare amalgama in un’opera palesemente a soggetto come "Fitzcarraldo" era però difficile immaginarlo. Eppure, "Fitzcarraldo" ha dalla sua una caratteristica evidente e a suo modo straordinaria (in quanto fuori dall’ordinario): quella di nutrirsi a ogni fotogramma del suo stesso mito, finendo per essere contemporaneamente il Fitzcarraldo-film e il Fitzcarraldo-making of, il film che documenta la sua stessa lavorazione. E dunque, ancora una volta, ad abbracciare herzoghianamente la non-fiction mentre si porta avanti un progetto squisitamente fiction [14].
Insomma, Herzog filma la sua idea e il compimento della sua idea, il progetto e la sua esecuzione, filma un’opera e contemporaneamente l’atto con cui essa viene alla luce. E poco importa che di "Fitzcarraldo" esista un making of "ufficiale" o "ufficioso", il già citato documentario "Burden of Dreams", che invero copre soltanto cinque settimane dei due anni e mezzo di produzione del film, non potendo dunque essere considerato esaustivo (e che anzi viene criticato da Herzog per alcuni passaggi in cui sembra emergere il messaggio di un regista che andava volutamente in cerca di difficoltà).
L’unico vero making of di "Fitzcarraldo" è lo stesso "Fitzcarraldo", e anche Herzog sembrava averlo pensato, sia in fase di preproduzione [15], sia quando, dopo l’abbandono del set da parte di Robards, prese seriamente in considerazione l’idea di sobbarcarsi sulle spalle l’intero film, aggiungendo ai suoi già gravosi compiti quello del protagonista: «perché non recitare io stesso la parte di Fitzcarraldo? Me la sentirei, perché i miei compiti sono diventati quelli del personaggio» [16].
Kinski gli tolse questa parte del "fardello", anche se in realtà finì per aumentare le sue incombenze a causa dello scompiglio che l’attore tedesco portò quotidianamente sul set. Thomas Mauch, invece, alleggerì il suo "fardello" tecnico-visivo, girando le scene più delicate, quelle che per forza di cose non erano ripetibili, con la macchina a mano e una non comune sensibilità per la cattura del momento, cosa che è spesso fondamentale nel documentario – e risultando dunque anch’egli prezioso per donare a "Fitzcarraldo" questa connotazione a cavallo tra fiction e non-fiction.
Si è già accennato a come Herzog non avesse mai nemmeno pensato di ricorrere ai facili espedienti degli effetti speciali, e in particolar modo ai modellini. E «non per amore di realismo» come ha avuto modo di sottolineare lo stesso regista, bensì «per la stilizzazione di un grande evento dell’opera lirica» [17]. Perché Herzog non andava cercando il realismo, o almeno non principalmente. Nella sua mente, "Fitzcarraldo" era «un condensato melodrammatico di sogni febbrili e pura immaginazione, una grandiosa scena, fortemente stilizzata, di fantasie della giungla» [18].
Si era nei primi anni Ottanta e non mancavano di certo gli esempi di lungometraggi celebri (dal "2001" di Kubrick allo "Star Wars" di George Lucas) che avevano sviluppato progetti grandiosi e ambiziosi ricorrendo al problem solving creativo, portando alla nascita - o se non altro alla maturazione - di un (nuovo e) diverso modo di fare cinema, sebbene prevalentemente nell’ambito della fantascienza. Non mancavano le possibilità tecniche e un ventaglio di trucchi che avrebbero reso più semplice – ma sicuramente meno epico e realistico – giungere al risultato voluto da Herzog. Ma il regista, appunto, non ne volle sapere. Se c’era da portare una nave in cima a una montagna la si doveva portare per davvero, utilizzando conoscenze apparentemente basilari di meccanica (gli argani) che fanno sembrare il personaggio di Kinski un esperto di ingegneria, quando invece utilizza nozioni di livello poco più che archimedeo (ma che invece nella realtà richiedevano, ovviamente, calcoli e strumenti ben precisi, affidati a un ingegnere brasiliano che peraltro finì per abbandonare il set per divergenze con la produzione) [19].
Ed è anche grazie a questo slancio di realismo (ancorché, come detto, fine secondario, nel pensiero di Herzog, rispetto alle intenzioni epiche) che l’opera di fiction si rende documentario: i cavi che si spezzano e la nave che viene ributtata verso il fiume, dopo un’iniziale breve salita che era stata accompagnata da trionfanti urla di giubilo, riflette quanto veramente accadde durante le riprese, senza che ciò fosse dunque previsto dalla sceneggiatura. Un fatto, quest’ultimo, che portò peraltro ad alcuni fraintendimenti (ancora oggi spesso equivocati), come la voce - diffusasi tra il pubblico dopo l’uscita del film - secondo la quale l’incidente mostrato in quella sequenza, nel quale perdono la vita due indigeni, travolti dalla nave ributtata nel fiume a seguito della rottura di uno dei cavi trainanti, fosse un fatto realmente accaduto (e dunque filmato cinicamente da Herzog), quando invece si era trattato di un momento di fiction inserito all’interno di una dinamica concretamente realizzatasi.
È noto come storicamente Herzog si sia scagliato – anche con una certa acrimonia – contro il cinéma vérité, contro quello che Edgar Morin aveva definito «cinema verità che superi l'opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico», contro quel «cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva» [20]. Eppure, proprio in "Fitzcarraldo" Herzog sembra aver contraddetto, almeno in parte, questa sua personale avversione. Proprio in "Fitzcarraldo" il cineasta bavarese sembra aver abbracciato - suo malgrado - l'approccio teoretico del cinéma vérité. È lo stesso film che pare dimostrarlo, e sono la sua stessa genesi e la sua stessa odissea produttiva a testimoniarlo. Sono gli episodi come quello poc’anzi indicato, ma anche alcune scene specifiche, come quella in cui, per la prima volta nel film, si incontrano gli indios: un incontro fortuito, filmato e inserito nel montaggio finale nonostante – anche in questo caso – non fosse previsto dalla sceneggiatura.
Eppure, in tutto ciò Herzog non rinunciò al suo ideale di una "verità estatica", di una "verità intensificata", e lo fece, ad esempio, scegliendo di inserire il sonoro di tamburi di tribù africane - che nulla c’entrano, nemmeno da un punto di vista antropologico, con gli indios dell’Amazzonia - per ricreare l’effetto della minaccia e della tensione derivante dall’avventurarsi della Molly Aida nei meandri della foresta vergine, percorrendo il fiume Pachitea.
Allo stesso modo, Herzog non rinunciò all’altro leitmotiv della sua poetica, quello di regalare a se stesso e al pubblico "immagini nuove", mai viste prima e forse – e mai come in questo caso – addirittura neanche mai pensate. Si tratta, in quest’ultima ipotesi, di un obiettivo che un documentario non può prefissarsi per definizione, a meno che il documentario medesimo non diventi lo strumento con cui si registra il processo di creazione di quelle immagini.
Elogio della lentezza
La nave, dunque, sale sulla montagna e sale per un tempo che pare interminabile. La salita occupa circa venti minuti di film, ma si intuisce, ovviamente, come le vicende coprano un periodo di tempo notevolmente più lungo, dell’arco di giorni o settimane. Eppure, in "Fitzcarraldo" tempo filmico e tempo diegetico, pur chiaramente distinti, sembrano in perfetta sintonia, soprattutto e proprio nella sequenza della salita della Molly Aida sul pendio che separa i due fiumi. Entrambi i tempi di questa parte della narrazione, quello del racconto e quello della storia, sono sì dilatati, ma comunque relativamente lunghi in rapporto ai rispettivi tempi complessivi, e forse proprio per questo motivo sembrano donare quella sensazione di estrema coerenza logico-temporale.
Ma a essere straordinariamente peculiare nella gestione del tempo in "Fitzcarraldo" è proprio l’esaltazione di una lentezza che a tratti diventa esasperante, ma che conserva sempre un fascino peculiare, soprattutto in quelle riprese in long shot che vedono avanzare la nave in campo lungo/lunghissimo, trainata dagli argani manovrati dagli indios. Non di rado il cinema ci ha regalato momenti di lentezza esteticamente ammalianti, ma siamo ovviamente ben lungi dal trascinare Herzog nelle spire dello slow cinema, movimento che non sembra appartenergli, se non in via del tutto marginale ed episodica. Si può rilevare, piuttosto, come con "Fitzcarraldo" Herzog compia un passo ulteriore - e ancora una volta originale - innestando la lentezza nell’azione, e in ciò dando l’ennesimo messaggio di rottura degli schemi più convenzionali della narrazione cinematografica.
È questo un aspetto che rimanda, ancora, a Steiner e a quei salti con gli sci catturati in ralenti, tecnica che aveva come finalità principale quella di (tentare di) fermare il tempo, imprigionandone la sua essenza estetica ed estetizzante. In "Fitzcarraldo" l’artificio filmico è invece assente, e la lentezza diventa un carattere narrativo più che tecnico, in tal senso avvicinandosi maggiormente alla concezione del tempo che emergeva nell’altro documentario fondamentale del primo Herzog, "Paese del silenzio e dell’oscurità", in cui i tempi dilatati erano essenziali all’espressione e alla percezione del disagio, alla rappresentazione dello scarto cognitivo.
Elogio dell’inutilità
"Signore e conquistatore delle cose inutili": è l’appellativo che viene rivolto a Brian Sweeney Fitzgerald da Don Araujo [21], uno dei signori del caucciù di Iquitos, che si burla di quell’uomo così attivo dal punto di vista imprenditoriale, ma sempre per progetti risibili e inutili (o almeno ritenuti tali da quegli uomini che preferiscono dare il loro denaro in pasto ai pesci – letteralmente – piuttosto che prestarglielo [22]).
Prima era la ferrovia transandina, che avrebbe dovuto collegare il Rio delle Amazzoni all’Oceano Pacifico, e che si è fermata dopo la posa di poche centinaia di metri di rotaie in piena giungla. Poi è stato il turno della fabbricazione del ghiaccio secondo processi chimici, ai primi del Novecento, dunque quando non vi era la possibilità di conservarlo, rendendolo di fatto un bene effimero, almeno nella calda e umida Foresta amazzonica.
A guardar bene, tuttavia, nessuna delle due iniziative intraprese da Fitzgerald era davvero inutile, essendo ben altri gli attributi che potevano essere affibbiati a quei due progetti. Effimero, per l’appunto, quello della fabbricazione del ghiaccio in Amazzonia. Sostanzialmente irrealizzabile, invece, quello della ferrovia transandina. Ma tutt’altro che inutili, almeno in linea teorica. O almeno: inutili soltanto per via della loro impraticabilità. Su un altro piano ancora si colloca la nuova idea che frulla nella testa di Fitzgerald, quella di conquistare il mercato del caucciù tramite un’intuizione di tipo logistico, uno di quegli eureka che, nel caso di specie, matura nella brillante mente dell’uomo soltanto osservando una carta geografica (peraltro di dubbia attendibilità - e ovviamente falsa nella realtà).
A rendere inutile anche quest’ultima trovata è invece la mossa delle tribù indigene che, dopo avere aiutato Fitzgerald in un’impresa titanica, vanificano gli sforzi del loro "committente" facendo ridiscendere la Molly Aida lungo il fiume Ucayali, attraverso le rapide del Pongo das Mortes, comportando l’impossibilità di tornare nella parte di fiume in cui Fitzgerald avrebbe dovuto operare. Infatti – e anche in questo caso – quello di Fitzgerald era un progetto tutt’altro che inutile. E la sua messa in opera costituiva una straordinaria prova di determinazione e di forza di volontà.
Flaiano definiva il sognatore come colui che ha "i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole". E Fitzgerald è proprio un sognatore di tale specie, è il più concreto dei sognatori, come lo poteva essere un Leonardo Da Vinci quando progettava la "vite aerea", prototipo dell’elicottero. Fitzgerald è un sognatore-pragmatico, è un ingegnere o un architetto più che un artista, è un mediano più che un fantasista. È un sognatore che si rimbocca le maniche, volendo provare a inquadrarlo in una perifrasi che ha un sapore profondamente teutonico - e decisamente herzoghiano. Non per nulla Herzog ha parlato di "fardello dei sogni" (burden of dreams), un apparente ossimoro che in realtà svela una concezione ben precisa degli oneri che si deve sobbarcare colui che ha un sogno da realizzare.
Ed è la stessa struttura narrativa di "Fitzcarraldo" a rendere il film, di fatto, l’equivalente di un magnifico e triplice sogno. Il sogno di portare l’Opera a Iquitos, che muove ogni azione del protagonista. E il sogno di portare una nave su una montagna [23], che non è altro che la variabile tecnico-logistica di un altro sogno ancora, quello di arricchirsi con il commercio del caucciù, ma solo per compiere il disegno più grande, vale a dire il primo. E come tutti i sogni, anche quelli di Fitzgerald sono soggetti alle leggi che regolano il mondo onirico: la caducità e il ridimensionamento. Il superamento della montagna è infatti reso vano dalla deriva della Molly Aida sulle acque del Pongo das Mortes. È un risveglio improvviso che cancella il sogno, lasciandolo nell’instabile ed effimera area del ricordo.
Svanisce quindi il sogno di diventare un signore del caucciù e con esso sembra svanire il sogno principale, che aveva mosso tutto, quello di portare l’Opera a Iquitos. Ma in realtà quest’ultimo sogno viene soltanto ridimensionato. Ciò che conta è averci provato, e quell’ultimo viaggio della Molly Aida con a bordo la compagnia d’Opera che intona l’aria "A te, o cara" tratta da "I puritani" di Vincenzo Bellini, è di fatto il coronamento - ancorché in tono minore - di un sogno.
Quella di Fitzgerald non è dunque una pulsione verso l’inutilità, è piuttosto la condanna di un uomo a essere vinto da essa. Un qualcosa in cui intervengono, in modo provvidenzialmente infausto, ma simbolico, fattori antropologici e mistico-religiosi: ciò che gli è stato fornito dagli indios, la manodopera necessaria a portare a compimento il suo folle progetto, era in realtà parte di un disegno che lo ha visto coinvolto quale personaggio semi-divino, ma che, soprattutto, ha visto coinvolta la Molly Aida quale strumento con cui gli indigeni intendevano placare la collera degli spiriti maligni delle rapide. Nemmeno per gli indios, dunque si può parlare di inutilità, essendo il loro agire volto a un preciso scopo, per quanto mistico e non convergente con quello di Fitzgerald. E siamo quindi all’inutilità declinata in almeno quattro possibili varianti: quella di Fitzgerald e quella degli indigeni, ma anche quella (già citata) dei magnati della gomma di Iquitos e infine quella dello spettatore, che a sua volta potrebbe doversi trovare a dubitare dell’utilità di un film che affronta il tema dell’inutilità (sappiamo che non è così, ovviamente, e la mise en abyme si rafforza ulteriormente, perché a sua volta inutile è tacciare di inutilità un film sull’inutilità).
Fitzgerald è spesso paragonato a Sisifo, e alla sua pietra che inevitabilmente rotola a valle dopo essere stata trascinata in cima, ed è stato del resto lo stesso Herzog a proporre questo paragone. Eppure, Fitzgerald starebbe a Sisifo soltanto se vi fosse la reiterazione incondizionata del gesto. Una cosa lungi dall’accadere, in quanto Fitzgerald sembra nutrirsi e accontentarsi di esperienze maestose, ma isolate, come maestosa e isolata è anche la scena finale del film, in cui il sogno dell’Opera si concretizza infine in un singolo episodio, in una singola, per quanto indimenticabile, rappresentazione.
È in fin dei conti la stessa poetica di Herzog a concepire la difficoltà e talvolta la maestosità della gestazione di un film come tratto caratteristico e immanente del medesimo: gli esempi sono numerosi, e vanno ben oltre le analogie produttive e testuali tra "Aguirre, furore di Dio" e "Fitzcarraldo". Si pensi infatti alle esperienze mistiche di "Segni di vita" e "Fata Morgana", o agli esperimenti con l’ipnosi di "Cuore di vetro". Ma l’esempio più eclatante resta senza dubbio quello del mediometraggio "La Soufrière", per filmare il quale Herzog si recò sull’isola di Guadalupa nell'imminenza di un'annunciata e potenzialmente catastrofica eruzione vulcanica, mettendo a rischio la propria vita.
Elogio della bellezza
Il richiamo a "La Soufrière" dà modo di affrontare un altro elemento cardine del cinema di Herzog: il forte legame con la Natura. Ed è altrettanto nota l’avversione di Herzog nei confronti di una natura spesso definita "orrenda" o "oscena", "abietta" o "spregevole". Un’avversione che si trasforma però in ammirazione, in un controverso rapporto odi et amo in cui l’amore è un sentimento nutrito "contro ogni buonsenso" [24]. Ciò che è certo è che in Herzog l’idea della natura come elemento ispiratore, pseudo-poetico, non ha cittadinanza. Per Herzog la natura è una madre distruttrice, talvolta sfidata da sognatori folli, come Fitzgerald, ma anche come lo stesso Herzog di "La Soufrière" o come, più avanti, il Timothy Treadwell di "Grizzly Man".
La natura per Herzog non è mai (o quasi mai) associata all’ideale di bellezza, nonostante le immagini dei suoi film (o almeno di alcuni di essi) possano far pensare il contrario. Herzog si è sempre detto ostile all’idea della natura benevola e amica dell’uomo, un’idea che deriva da quella che egli ha definito la "disneyzzazione della natura". Allo stesso modo, Herzog ha criticato anche altre concezioni edificanti o ammalianti della natura, come quella di Kinski, che aveva definito la giungla come un ambiente dotato di una connotazione intrinsecamente erotica [25].
Eppure, non manca l’analisi del bello e della bellezza in Herzog, e non manca soprattutto in "Fitzcarraldo". E se la bellezza non può derivare dalla natura non resta che ricercarla nell’opera dell’uomo e in particolare (in "Fitzcarraldo") nella musica e nella lirica.
L’obiettivo di Fitzgerald di portare l’Opera a Iquitos, emulando la magniloquenza della città gemella brasiliana di Manaus - che un teatro filarmonico fiorente e frequentato ce l’ha già, tanto da aver ospitato il grande Caruso -, giunge a compimento in un finale straordinario, tra i più emozionanti e lirici (anche in senso letterale) della storia del cinema. Ma la bellezza associata all’opera dell’uomo, in generale, e all’Opera (con la maiuscola) in particolare, emerge già dalle prime concitate scene in cui Fitzgerald e Molly si recano a Manaus per assistere, appunto, alla performance di Caruso nell’Ernani di Giuseppe Verdi, uno spettacolo universale, magnificato dalla fotografia di Thomas Mauch, così satura in quelle prime scene, per poi diventare opaca e insatura nella parte centrale del film, in cui dominano i colori (verde scuro, marrone) della giungla e delle acque melmose del Rio delle Amazzoni [26].
Il bello: le coloratissime e sgargianti scenografie dell’Ernani riprodotte nel Teatro Amazonas di Manaus.
E l’osceno: la natura e la sua piuttosto marcata monotonia cromatica.
Alla bellezza Fitzgerald tenta di educare le popolazioni indigene, in quella che allo spettatore può apparire come la predisposizione di un’arma preventiva di deterrenza e dissuasione (la voce di Caruso sprigionata dal grammofono a bordo della Molly Aida), ma che per il protagonista è invece un’opera di colonizzazione spirituale, l’equivalente di ciò che poteva essere la lettura dei vangeli per i missionari che incontravano le popolazioni da convertire al cristianesimo. Con la differenza che Fitzgerald vuole convertire non a una fede ma alla bellezza, che siano gli indios della giungla amazzonica o i signori del caucciù di Iquitos durante i loro ricevimenti ipocriti e sfarzosi.
E la bellezza herzoghiana è ciò che trionfa in un finale ottimista e consolatorio.
È la vittoria dell’inutilità.
È ciò che fa sorridere Molly e le popolazioni locali – avvinte dalla miseria, ma felici – che accorrono sulle rive del Rio delle Amazzoni per vedere l’ultimo, epico spettacolo di quella nave che tornerà a solcare i fiumi per ragioni puramente commerciali.
È la leggerezza dei sogni che trionfa sulla pesantezza del fallimento, così come la leggerezza della discesa aveva fatto seguito alla pesantezza della salita.
È il sorriso di Fitzgerald / Kinski, mentre imbocca un sigaro e si appoggia alla poltrona di velluto rosso, tenendosi in disparte dall’orchestra e dal coro, con un’espressione che esplicita la sua riconciliazione con l’esistenza, il suo trionfo morale e spirituale.
Note
[1] "La conquista dell’inutile" è il libro, pubblicato per la prima volta nel 2004 (e in Italia nel 2007), in cui Herzog ha raccolto i contenuti dei diari da lui tenuti durante i due anni e mezzo di produzione di "Fitzcarraldo", dal giugno del 1979 al novembre del 1981.
[2] La visione di Herzog è descritta nel prologo a "La conquista dell’inutile".
[3] Lo racconta Herzog nella prima delle otto "Filmstunde", le lezioni di cinema che tenne alla Viennale del 1991, di cui era stato nominato direttore.
[4] In particolare, le riprese iniziarono soltanto nel gennaio del 1981, sebbene il progetto fosse in esecuzione già dal 1979. Dal giugno all’ottobre 1979 ci fu la prima fase di lavori preparatori presso il Rio Marañón, conclusasi con la fuga della troupe per causa degli indios Aguarunas. Vi fu poi una pausa di otto mesi, durante i quali Herzog – da par suo – girò due film documentari per la televisione, "La predica di Huie" e "Fede e denaro". I lavori ripresero quindi nel luglio del 1980, con Herzog costretto a riorganizzare da capo l’intera produzione. La macchina da presa entrò ufficialmente in funzione pochi giorni dopo il Capodanno del 1981. Un anno di riprese non è ovviamente una tempistica così straordinaria, soprattutto per le grandi produzioni (Francis Ford Coppola, che in quegli anni veniva dalla maratona di "Apocalypse Now" ne sapeva qualcosa). Ma per uno come Herzog, abituato a concepire, girare e confezionare un film in periodi decisamente contenuti, cosa che gli ha consentito di diventare uno dei registi più prolifici del Dopoguerra, si trattava di tempistiche incredibilmente lunghe.
[5] Trovare un’altra località in cui si potesse rintracciare la conformazione geo-morfologica richiesta dalla sceneggiatura – ossia quella di due fiumi, entrambi navigabili, che correvano per un tratto paralleli, separati da un piccolo istmo montagnoso, largo non più di un paio di chilometri – non era per nulla semplice, e infatti la produzione si dovette spostare di circa 1.000 km (in linea d’aria) a sud est, passando dalle regioni al confine con l’Ecuador alle vicinanze di Machu Picchu - e allontanandosi quindi di molto dalla città di Iquitos.
[6] Herzog, "La conquista dell’inutile", p. 87. Il "processo grottesco" cui fa riferimento Herzog è quello intentatogli in contumacia da un "tribunale" di ideologi.
[7] Il budget iniziale, poi lievitato, era di 4,5 milioni di dollari, cifra che appare risibile in relazione al prodotto finale, ma ancor di più se si pensa alle mille difficoltà incontrate. Eppure, Herzog non diede grande peso alle questioni finanziarie (anche perché - fortunatamente - le redini del discorso produttivo erano in mano al fratellastro del regista, Lucki Stipetić), intimamente convinto com’era che a «muovere le montagne» fosse la fede e non il denaro («In Fitzcarraldo non sono stati i soldi a issare la nave sulla cima della montagna: è stata la fede» dirà Herzog a Paul Cronin nei dialoghi raccolti nel libro-intervista "Incontri alla fine del mondo"). E infatti Herzog era tanto convinto delle proprie idee che iniziò a produrre il film di tasca propria, sicuro che, una volta avviato il progetto e svelata la sua grandiosità, questo sarebbe stato senza dubbio sposato e appoggiato da qualcuno («ero convinto che l’unico modo per realizzare un film del genere fosse quello di cominciare a far uscire il treno dalla stazione, in modo che tutti potessero farsi un’idea della sua grandezza, della sua velocità e di dove stesse andando. Sapevo che poi ci sarebbero state persone desiderose di saltare a bordo», "Incontri alla fine del mondo", p. 244). Quanto invece alle difficoltà economiche personali di Herzog, queste le sue significative parole, estratte da "La conquista dell’inutile" (p. 87), nel paragrafo che descrive sommariamente l’ellissi che va dall’ottobre 1979 al luglio 1980, quando la produzione si fermò del tutto: «Ero caduto così in basso che non avevo più niente da mangiare. Avevo venduto due flaconi di shampoo al mercato di Iquitos e in cambio avevo comprato quattro chili di riso, con cui potevo andare avanti per tre settimane». Qualcosa di analogo era accaduto durante la lavorazione di "Aguirre, furore di Dio", anch’esso girato in Perù: «A volte dovevo vendere i miei stivali o il mio orologio da polso solo per procurarmi la colazione» ("Incontri alla fine del mondo", p. 125).
[8] Robards e Jagger, peraltro, avevano già girato diverse scene, per un totale di circa il quaranta percento della sceneggiatura. Dopo l’abbandono di Robards, Jagger risolse il contratto con la produzione, non senza che Herzog avesse provato a offrirgli – un po’ provocatoriamente, un po’ no – la parte del protagonista. Ma le cose stavano andando troppo per le lunghe e Jagger aveva in programma il tour con gli Stones. L’abbandono del set (e del film) fu dunque inevitabile, nonostante Jagger si fosse dimostrato un entusiasta del progetto, tanto da proporsi addirittura e in varie occasioni come chaffeur, andando a prendere i tecnici in aeroporto e accompagnandoli in albergo, per supplire alle evidenti carenze organizzative. Jagger non aveva battuto ciglio quando Herzog gli aveva detto che per tre mesi di lavoro nella giungla gli avrebbe potuto dare al massimo la metà di quanto guadagnava solitamente in un singolo concerto, in una singola serata. Ma quando le cose iniziarono a complicarsi – e i tempi ad allungarsi irragionevolmente –, anche l’entusiasmo di Jagger dovette cedere. Herzog decise peraltro di non sostituirlo e di cancellare il personaggio del coprotagonista maschile dalla sceneggiatura. Si liberò altresì del girato che vedeva protagonisti Robards e Jagger. Fortunatamente, però, fornì alcune di quelle scene a Les Blank per il suo documentario, e grazie a lui tali scene si sono conservate – permettendo peraltro a Herzog di utilizzarle più avanti nel documentario "Kinski, il mio nemico più caro".
[9] I capricci di Kinski erano il sintomo di quanto egli volesse a tutti i costi ritagliarsi un ruolo da primadonna, pur tra le mille avversità che stava incontrando la produzione: fu capace di urlare come un pazzo per un caffè non abbastanza caldo nel giorno in cui era giunta la notizia di un incidente aereo in cui erano rimasti coinvolti il pilota e alcuni indios del posto (non fu peraltro l’unico incidente aereo occorso durante le riprese); o ancora – e per limitarsi a citare gli episodi più stravaganti – Kinski ebbe una lite "assurda e violenta" con Herzog perché pretendeva di lavarsi con l’acqua minerale ("La conquista dell’inutile", p. 228). Kinski aveva da ridire pressoché su ogni cosa, dimostrando una volta di più la propria instabilità mentale, esasperata dai mesi trascorsi nella giungla e che si attenuava soltanto in presenza di Claudia Cardinale, l’unica che riusciva a ricondurre alla ragione e ad atteggiamenti più miti l’attore tedesco.
[10] Per la precisione, l’ostinazione di Herzog si riferiva alla sequenza del superamento della montagna, perché per quella delle rapide furono invece utilizzati (anche) dei modellini, per le riprese a distanza della nave in balia del fiume.
[11] Herzog, "La conquista dell’inutile", p. 13.
[12] Viste le già citate, plurime accuse di maltrattamenti e abusi che sarebbero avvenuti durante la lavorazione del film, Herzog tiene spesso a precisare come quello capitato a Mauch - che si ritrovò con una mano aperta, ricucita dopo un’operazione chirurgica in cui l’anestesia consistette nel far affondare la testa del malcapitato tra i seni di una prostituta - fosse uno dei due soli "fatti di sangue" legati direttamente alla produzione del film, visto che l’aggressione ai due indios mentre erano andati a pesca non poteva ritenersi tale. L’altro "fatto di sangue" fu invece un incidente occorso a un tagliaboschi, che venne morso a un piede da un chuchupe, considerato uno dei serpenti più velenosi al mondo, mentre stava abbattendo alcuni alberi con la motosega. Siccome nel giro di qualche minuto sarebbe intervenuto l’arresto cardiaco, l’uomo, dopo un iniziale smarrimento e dimostrando un grandissimo sangue freddo, prese la decisione di amputarsi il piede con la motosega, cosa che gli consentì di salvarsi la vita.
[13] Herzog, "La conquista dell’inutile", p. 136.
[14] Pur trattandosi di una caratteristica abbastanza evidente, va dato atto a Fabrizio Grosoli di essere stato tra i primi a suggerire questa lettura, almeno in Italia (in Cineforum n. 220 – 12/1982): «in Fitzcarraldo l'avventura delle riprese, forse mai tanto tormentata per Herzog, diventa a tutti gli effetti il vero soggetto del film, il centro reale su cui ruota incessantemente il nucleo iniziale della finzione». Inoltre, fu in seguito lo stesso Herzog a definire "Fitzcarraldo" «il mio miglior documentario» (Herzog, Cronin, "Incontri alla fine del mondo", p. 327).
[15] Herzog aveva del resto pensato che «Issare un battello su una montagna avrebbe inevitabilmente prodotto situazioni imprevedibili e avrebbe infuso vita nel film» (Herzog, Cronin, "Incontri alla fine del mondo", p. 244).
[16] Herzog, "La conquista dell’inutile", p. 165.
[17] Ivi, p. 13.
[18] Herzog, Cronin, "Incontri alla fine del mondo", p. 243. Ciò detto, l’istanza realistica era sicuramente presente nelle idee del regista bavarese, come da sua stessa ammissione: «desideravo che il pubblico fosse in condizione di credere ai suoi occhi» (ivi, p. 244). In tal senso, Herzog ha paragonato la Molly Aida al treno dei fratelli Lumière protagonista di "L'Arrivée d'un train à La Ciotat". La salita della nave sulla montagna avrebbe dovuto infondere quelle stesse emozioni negli spettatori, e Herzog fu soddisfatto nel rilevare che andò proprio così: «quando il film è stato proiettato in Germania gli spettatori si sono messi a urlare appena la barca è arrivata sopra la montagna. A poco a poco avevano capito che quanto stavano vedendo non era un trucco» (ivi, p. 245).
[19] Delle divergenze c’erano state anche con lo stesso Herzog, che per rendere più spettacolare la salita – nonché, secondo la sua visione, per renderla più attinente alla metafora che il film intendeva propugnare – voleva adottare un angolo di inclinazione di 40° anziché di 20, come suggerito dall’esperto. Alla fine, l’ebbe vinta Herzog, che decise di fare di testa sua, pur dopo aver preso delle precauzioni supplementari e nonostante l’ingegnere gli avesse dato soltanto il trenta percento di possibilità di riuscita.
[20] Riportato in G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, "Storia del cinema", 3° vol., "Dalle 'nouvelles vagues' ai nostri giorni", 1988.
[21] "Conquistatore dell’inutile" è anche il modo con cui Herzog ha più volte definito se stesso nell’atto di compiere l’impresa narrata nel film (un concetto che, come visto, ha finito per dare il titolo al diario di produzione): il vero Fitzcarraldo aveva fatto smontare la barca per trasportarla da un fiume all’altro, ciò che era del resto la cosa più logica da farsi in quelle circostanze. Anche per tale motivo, l’impresa narrata nel film rappresenta un unicum fine a se stesso e Herzog non lo ha mai nascosto.
[22] Tanto era forte quella metafora, che Herzog non volle assolutamente rinunciarvi, a costo di trascorrere ben undici giorni di riprese per riuscire a immortalare l’attimo in cui, finalmente, i pesci decisero di ingoiare le banconote che gli erano state tirate. Undici giorni di riprese per pochi secondi di inquadratura: un rapporto temporale che rappresenta perfettamente, pur nel suo piccolo, il travaglio produttivo del film.
[23] Herzog ha spesso dichiarato come la salita della Molly Aida sulla montagna potesse anche essere interpretata come una metafora, sebbene lo stesso regista abbia più volte dichiarato di non saper bene di cosa.
[24] Questa concezione è illustrata in "Burden of Dreams" e ripresa nel libro "Incontri alla fine del mondo".
[25] I pensieri di Herzog sull’oscenità e sulla "disneyzzazione" della natura, nonché sulla visione di Kinski della giungla, sono riportati in "Conversazioni sul cinema", il libro che raccoglie le interviste rilasciate alla rivista di cinema Fata Morgana da vari registi e persone di cinema, tra cui per l’appunto Herzog. Il regista bavarese, in particolare, venne intervistato da Daniele Dottorini per il numero 6 di Fata Morgana (2008), che aveva come tema portante proprio la natura.
[26] Va rilevato, peraltro, come la messa in scena dell’Ernani nella parte iniziale del film non sia stata curata da Herzog, bensì dal regista tedesco Werner Schroeter, che con Herzog era stato tra i principali esponenti del Nuovo cinema tedesco (una corrente a cui, tuttavia, Herzog non si è mai sentito particolarmente legato, almeno da un punto di vista concettuale). A quel tempo, infatti, Herzog non era esperto di (e mai si era cimentato con la) messa in scena teatrale di un’opera lirica, sebbene fosse un appassionato della materia. Lo sarà in futuro, quando dirigerà alcuni allestimenti di opere per il Teatro comunale di Bologna e per il Festival di Bayreuth. Assolutamente logico, dunque, che – almeno in quegli anni – un regista fortemente fisico e materico come Herzog si trovasse decisamente più a suo agio con le riprese nella giungla piuttosto che con quelle nel Teatro Amazonas di Manaus.
cast:
Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Huerequeque Enrique Bohorquez, Miguel Ángel Fuentes, Peter Berling
regia:
Werner Herzog
durata:
158'
produzione:
Werner Herzog Filmproduktion, Filmverlag Der Autoren, ZDF
sceneggiatura:
Werner Herzog
fotografia:
Thomas Mauch
scenografie:
Ulrich Bergfelder, Henning von Gierke
montaggio:
Beate Mainka-Jellinghaus
costumi:
Gisela Storch
musiche:
Popol Vuh