Tacciato di vuoto formalismo e di manierismo da una critica talvolta miope, Park Chan-wook è uno dei cineasti più lucidi e tra i maggiori stilisti di questo inizio di secolo. Il suo undicesimo lungometraggio, premiato con la Palma alla miglior regia al Festival di Cannes, ricalibra il suo cinema aprendolo a ulteriori prospettive estetiche e teoriche. "Decision To Leave" è un mesmerico noir-melò che potrebbe diventare una delle vette di questo decennio. Ed è, soprattutto, un testo filmico misterioso e polisemico sulle cui stratificazioni proviamo qui a indagare.
I monti, le acque
Paesaggio in cinese si dice Shanshui (山 水), che si tradurrebbe in "monti, acque". Shanshui è anche il celebre stile della pittura cinese che raffigura paesaggi secondo precise regole compositive ed estetiche. Il repertorio paesaggistico è potenzialmente infinito in quanto non restituisce necessariamente un angolo di mondo ma l'affiorare di una visione che rimanda a una totalità invisibile nel grande movimento armonico degli opposti. Lo Shanshui è infatti un compendio di cultura e filosofia cinese in cui il bianco e nero, i chiaroscuri che formulano i paesaggi, in cui si possono vedere montagne, corsi d'acqua, sentieri attraversati dalla nebbia, e in cui la figura umana ha un ruolo di minor rilievo, mostrano le polarità dicotomiche dello yin e yang, del bianco e nero, del vuoto e pieno, dell'alto e basso.
Fig. 1. Shanshui, paesaggi, monti, acque.
In "Decision To Leave" Song Seo-rae cita al detective Jang Hae-jun una massima di Confucio secondo cui ai benevoli si addice la montagna e ai saggi il mare, e che lei non è una persona benevola. Questo passaggio che, come molti dialoghi fra i due protagonisti, si carica di un surplus allusivo, è una chiave d'accesso al lavoro di Park che innerva il film di una simbologia che rima con la sibillina affermazione della donna. "Decision To Leave" è anche un film sul paesaggio in cui due protagonisti in movimento devono individuare la propria posizione all'interno del quadro (fig. 1).
Quando inizia l'indagine, il detective Jang decide di salire sulla vetta da cui è caduto Ki Doo-soo, un ufficiale dell'immigrazione in pensione appassionato di alpinismo e marito (molto più anziano) dell'immigrata cinese Seo-rae. In diverse situazioni, Hae-jun è costretto a rincorrere i criminali su strade in salita, salendo le scale, arrampicandosi sui tetti. È abbastanza chiaro come l'immobilità della virtù, la fermezza morale, la repressione del desiderio che la tradizione proietta sulla montagna siano incarnate da Hae-jun, che viene definito "nobile detective" dalla donna, quasi si trattasse del virtuoso cavaliere descritto da Confucio. Qualcosa però si modifica nel momento in cui la sua traiettoria entra in rotta di collisione con quella di Seo-rae, che invece viene dal mare (lei stessa lo racconta, parlando delle traversie da clandestina) e la cui casa ha alle pareti una carta da parati con un motivo in cui le cime di catene montuose possono apparire come creste di un moto ondoso.
L'acqua è un simbolo vitale e generativo ma anche oscuro e ambiguo, che scuote ed erode persino la pietra. Montagna e mare indicano dunque istanze e distanze di un incontro che contiene in sé polarità e dicotomie che rimescolano i caratteri dei personaggi. Tra di loro una distanza, appunto, tra alto e basso ma anche tra due lingue (cinese e coreano) che infittiscono un mistero avvolto dalla nebbia perenne di Ipo (inventata cittadina di mare dove si svolge la seconda parte) e dalla sonnolenza di un detective afflitto da insonnia.
Schermo del mio desiderio
Il soggetto ricorda un film bellissimo e colpevolmente non citato di Yasuzo Masumura, "A Wife Confesses" (1961): una giovane moglie, in un incidente durante una scalata, recide la corda che la lega al marito causandone la morte, dovendo poi difendersi dall'accusa di omicidio volontario. Se Masumura sfruttava il torbido melò per analizzare la figura della donna su un piano eminentemente sociale, Park utilizza il medesimo subplot (una giovane moglie che ha subito abusi da un marito più anziano) per depistarci. L'orizzonte della verità tipico del poliziesco procedurale è sfocato da un regista alla perenne ricerca dello scacco del desiderio, dell'illusionismo prospettico. "Decision To Leave" mette in scena la danza dei sentimenti rimodulando gli schemi della detective story attraverso processi estetici che esaltano la confidenza con la macchina da presa del regista: la distanza e l'apparente inconciliabilità tra i personaggi diventa per Park la sfida della messa in scena e il leit-motiv che conduce il montaggio.
Fig. 2. Nel gioco di riflessi e schermi, l'alternanza di profondità di campo produce il montaggio interno e simula lo split screen.
Durante gli interrogatori, Song Seo-rae si mostra in una serena trasparenza, ridendo dopo aver proferito una parola di cui non è sicura; d'altra parte è cinese e dice di parlare male il coreano. Lo schermo cinematografico è ri-mediato da una moltiplicazione di altri schermi (monitor, laptop, smartphone) in una vertigine di quadri-nel-quadro, sovrapposizioni e sovrimpressioni fino a soluzioni di montaggio interno e a split screen diegetici. Basti, come esempio, la scena ambientata nella sala degli interrogatori, in cui l'immagine dei due personaggi seduti è raddoppiata dallo specchio spia: la doppia messa a fuoco crea un chiasmo, una rima alternata di corpi e riflessi digitali (fig. 2). "Decision To Leave" offre una mappatura di quelle metafore che, secondo Francesco Casetti, si sono succedute nelle teorie classiche del cinema: la finestra, il quadro, lo specchio. Il lavoro di Park incorpora i nuovi device in una proliferazione di immagini che rompono l'unità dello schermo cinematografico che a tratti somiglia a un display restituendo anche l'esperienza del nostro paesaggio mediale (fig. 3). È la love story più contemporanea nel modo di trattare i sentimenti all'interno di uno spazio digitale e di progressiva smaterializzazione del reale.
Fig. 3. Regimi della visione: specchi, schermi, finestre e display.
Il rito dell'indagine e dell'interrogatorio poliziesco diventa dunque il corteggiamento del detective alla sospettata. Quando Hae-jun inizia il pedinamento, si apposta davanti al suo posto di lavoro o al suo appartamento restando a una distanza di sicurezza; è però sufficiente un raccordo di montaggio per proiettarsi negli stessi spazi abitati da lei, immaginarsi presente col corpo grazie alla potenza del proprio sguardo. La comunicazione tra Seo-rae e Hae-jun si svolge attraverso un sistema di segni, di non detti, di gesti che ritardano l'avvicinamento mantenendo alta la tensione, come quando attendono la traduzione di registrazioni vocali in mandarino. Sguardo e parola sono termini sempre presenti nel cinema parkiano e in "Decision To Leave" sono il terreno d'incontro dei desideri dei due protagonisti. Spiare, fotografare, registrare sono azioni che non equivalgono a comprendere, ad avere chiaro, a vedere meglio ma sono tracce di un discorso amoroso inceppato i cui frammenti possono essere ripetuti ossessivamente (fig. 4).
Nel climax finale, Park inquadra il dito di Hae-jun che tocca lo schermo: apparentemente è il display dello smartphone ma è in realtà il nostro schermo (cinematografico), poiché aziona una sequenza che ri-vediamo e la sorgente di queste immagini è - diegeticamente - una nota audio (fig. 3). La parola s'incarna in immagine assediando il soggetto col fantasma del ricordo in una circolarità infinita.
Fig. 4. Regime dell'audiovisione: stimolazione oculare e registazioni di note audio si ripetono e si rivedono nel corso del film.
Vertigine digitale e ossessione fantasmatica
Sin da "Old Boy" e poi, puntualmente, da "Thirst", Park Chan-wook torna sulla passione perversa, sull'amore come folie à deux. Se "Mademoiselle" rappresenta l'estremo sensuale e carnale del suo cinema, "Decision To Leave" quello più misterioso e liquido, divenendo punto di convergenza di opere che hanno elaborato in modo originale la forma cinematografica come partitura psichica: si pensi al sottotesto morboso e feticista de "Il filo nascosto" (P.T. Anderson, 2017), al "mondo come enigma" di "Burning - L'amore brucia" (Lee Chang-dong, 2018), al dialogo con gli spettri del reale e con i nostri fantasmi di "Personal Shopper" (Olivier Assayas, 2016).
Questo fil rouge concettuale si fonde alla rilettura di forme hitchcockiane che Park Chan-wook compie da molti anni a questa parte: "Stoker" è una variazione sul tema de "L'ombra del dubbio"; gli incroci e le sovrapposizioni prospettiche di "Mademoiselle" possono ricordare "Delitto per delitto" e "Il delitto perfetto", così come l'esibito virtuosismo non può che spingere la sua regia verso il saggio metalinguistico à-la De Palma. L'interesse che il regista sud-coreano ha nutrito per la realizzazione della miniserie "The Little Drummer Girl", trasposizione di un romanzo di John Le Carré, è consistito quasi sicuramente nella possibilità di rifarvi al suo interno "Notorious". Come in Hitchcock (e in De Palma) scopofilia e pulsione scopica sono nodi focali del discorso parkiano che si articola in un regime scopico fondato su quella perversione feticista che incatena i personaggi gli uni agli altri e seduce lo sguardo dello spettatore. In "Decision To Leave" Park produce uno scarto nella riflessione sullo sguardo poiché, al contrario di altri suoi film, non avviene la rivelazione di un ordine demiurgico, di un terzo colto nell'atto di guardare: avveniva in "Old Boy", quando uno zoom out rivelava la presenza di Lee Woo-jin steso al fianco di Oh Dae-su e Mi-do; e accadeva in modo travolgente in "Mademoiselle", un'opera il cui punto di vista slittava continuamente ribaltando l'ordine gerarchico, finché, nel finale, coloro i quali si credevano i demiurghi, i registi dietro le quinte, non si annientavano. "Decision To Leave" sembra quindi proseguire il medesimo discorso proponendo personaggi che devono ora tessere la loro trama, all'ombra di una regia disincarnata e (quasi) onnipotente.
Una delle scene più romantiche vede il detective osservare da un tetto Seo-rae cenare di nuovo con un gelato, fumare e addormentarsi in una posizione scomoda. La descrizione fuori campo (l'ennesima nota registrata sullo smartwatch) produce un cut di montaggio per il quale ci ritroviamo dentro l'appartamento della donna: la vediamo assopita sul divano, la mano protesa con la sigaretta tra le dita. La cenere sta cadendo ma lo zoom out della macchina da presa rivela la provvidenziale presenza del detective con un posacenere in mano. Il suo sguardo desiderante lo proietta accanto alla donna, lo vediamo rilassarsi sul divano e addormentarsi, mentre la macchina da presa ruota intorno a Seo-rae mostrandola sorridere (fig. 5).
Fig. 5. Sguardo e proiezione: durante i prolungati appostamenti, il detective riesce ad abitare gli spazi di Seo-rae, sentirne l'odore, starle vicino.
Come si proclamava in "The Little Drummer Girl", si recita nel "teatro del Reale", è però ostico stabilire chi guarda e chi viene visto. In tal senso Park sembra analizzare la teoria lacaniana di "schisi tra occhio e sguardo", per cui si innescano relazioni di reversibilità, riconoscimento e rêverie pressoché infinite. Noi vediamo, ma l'oggetto del nostro sguardo ci guarda a sua volta. Park sfrutta le illimitate possibilità della macchina da presa e del digitale attraverso imprevedibili tagli di montaggio: l'impossibile controcampo del detective, in cima alla montagna, visto dall'orbita oculare del defunto Ki Do-soo; e in una scena successiva il punto di vista dell'inquadratura coincide con l'occhio di un pesce morto (toccato dalla moglie di Hae-jun). I protagonisti sembrano sottoposti a un regime di totale visibilità e lo stesso detective viene più volte inquadrato mentre usa un collirio oculare per osservare con maggiore lucidità, eppure la realtà non si allinea, resta equivoca e i personaggi ambigui. Quando, nell'ennesima sequenza folgorante, Seo-rae si fa accompagnare da Hae-jun in montagna per spargere le ceneri del nonno, notiamo la torcia da casco che riluce nel buio in cui è avvolta la figura, la sua soggettiva avvicinarsi pericolosamente al detective, il raccordo su Hae-jun che ansima preoccupato. Invece di una spinta fatale si stringono in un abbraccio, perché l'amore perverso è anche un atto di fede, di totale abbandono nell'altro (fig. 6).
Fig. 6. In alto: raccordi di montaggio e soggettive (impossibili) che guardano da un occhio morto. In basso: contatti immaginati o temuti.
Alla rielaborazione di forme hitchcockiane concorre la vertigine generata dalla presenza di Tang Wei. Già doppiogiochista sensuale in "Lussuria - Seduzione e tradimento" (Ang Lee, 2007), compagna sentimentale che spariva nello sciame del cyber-spazio di "Blackhat" (Mann, 2015), femme fatale che visse infinite volte nel tempo reversibile del sogno in "Un lungo viaggio nella notte" (Bi Gan, 2018), è qui il centro gravitazionale del film, al contempo eroina romantica, dark lady e femmina folle. Il rapporto di reciproca attrazione tra lei e Hae-jun riguarda la disponibilità a lasciarsi manipolare dal desiderio altrui: in "Vertigo" Jimmy Stewart ricostruisce l'immagine di una donna morta, un desiderio sottilmente necrofilo di controllo e possessione. In "Decision To Leave" è invece il detective che diviene malleabile rispetto al gioco della seduzione, incrinando la propria corazza di moralità; nella seconda parte lo schema della detection viene replicato e ribaltato, poiché è Seo-rae a decidere di pedinare, guardare, registrare, infine, costruire un nuovo caso per il detective gentile. Seo-rae si trasforma nella consapevolezza di esistere nella dimensione eterna di ossessione fantasmatica, nell'immagine di un caso irrisolto che non permette il sonno e stimola l'allucinazione.
Solo così si può tenere il cuore altrui sul palmo della propria mano (fig. 7).
Fig. 7. Hunting/Haunting in una dissolvenza incrociata.
cast:
Park Hae-il, Tang Wei, Lee Jung-hyun, Go Kyung-pyo, Kim Shin-young
regia:
Chan-wook Park
titolo originale:
Heeojil gyeolsim
distribuzione:
Lucky Red
durata:
138'
produzione:
Moho Film
sceneggiatura:
Park Chan-wook, Chung Seo-kyung.
fotografia:
Kim Ji-yong
scenografie:
Ryu Seong-yee
montaggio:
Kim Sang-beom
costumi:
Kwak Jung-tae
musiche:
Jo Yeong-wook