Il corpo è realtà
In una sequenza di "Dead Ringers" (1988), Elliot Mantle, uno dei due gemelli ginecologi interpretati da Jeremy Irons, riflette sulla necessità di istituire dei concorsi di bellezza anche per l’interno dei corpi. Tipo la milza migliore, i reni meglio sviluppati... "Perché non dovremmo avere un ideale di bellezza per l’intero corpo, sia interno che esterno?" si chiede. In "Crimes of The Future" Cronenberg torna a martellare lo spettatore con la stessa, imprescindibile domanda. Una domanda che è, in fondo, alla base dell’origine del suo body horror e che solo al pensiero trascende inevitabilmente nel tabù, minando l’inviolabile sociale. Prendendo in prestito le dissertazioni di Burke e del suo Trattato di Estetica, l’esterno del corpo (il Bello) è ciò che alla vista e al tatto risulta piacevole, armonioso mentre l’interno del corpo (il Sublime) è la potenza del terrore, del dolore e del pericolo che paradossalmente ammalia fino a tracimare in un profluvio di sentimenti e pathos. Il sublime, l’interno dei corpi, è in estrema sintesi la porta di accesso all’arte di David Cronenberg.
"Crimes of The Future" è questo e molto altro: centosette minuti di trattato sull’evoluzione umana, sul potere che la fagocita e sull’arte che la riscatta, sulla spaventosa accelerazione in ambito di mutazione umana/tecnologica in atto, sulla possibilità di poter redimere il nostro corpo al fine di sanare, anche parzialmente, le nefandezze che lo stesso ha commesso nel corso del passato. Centosette minuti di sesso e morte, di oltre mezzo secolo di carriera di uno tra i registi che ha saputo profetizzare come pochissimi altri il destino a cui sarebbero andati incontro uomo e società alle porte del nuovo millennio.
In principio c’è il corpo, dunque. "Body is reality", come si legge tra i pixel della stessa televisione che quarant’anni fa fu di Max Renn e che ora appartiene a Saul Tenser, performer artistico che sfrutta le sue naturali mutazioni del corpo per presentare voyeuristici spettacoli di rimozione chirurgica insieme alla sua partner Caprice. Saul vive in un mondo dove il dolore e i virus sono scomparsi e gli uomini sono vittima di quella che è definita, con un sarcastico espediente di scrittura, la "sindrome da evoluzione accelerata", un processo di mutazione e autogenerazione continua del corpo. L’intreccio narrativo segue fondamentalmente due percorsi ben distinti, quello sociopolitico e quello artistico, ma il corpo è indistintamente al centro di entrambi, sempre più intrinsecamente connesso con la tecnologia e l’ambiente sintetico.
Per dormire Saul ha l’esigenza di regolare il sonno e il dolore attraverso un macchinario organico, per mangiare gliene occorre un altro in grado di facilitare la digestione (le cui componenti ricordano le escrescenze organiche dell’alieno in "Naked Lunch"). Le operazioni chirurgiche sono rese possibili da un sarcofago creato per eseguire autopsie ma che la coppia adibisce a concept per le loro performance artistiche. Se poi in "Eastern Promises" era il corpo marchiato dai tatuaggi uno dei leit-motiv cardine, qui lo sono gli organi interni: "Il tatuaggio assume la figura, la forma dell’organo stesso. In un certo senso lo domina, gli dà un’altra forma [...] sembra togliere significato all’organo e fare proprio il processo legato al significato". Strutturalismo linguistico saussuriano che fluisce dalla psicanalisi lacaniana di "A Dangerous Method" (l’inconscio è strutturato come un linguaggio). Il compromesso legato a queste evoluzioni è però agli occhi dello spettatore: il pallore in volto e l’immagine ricurva e debilitata di Viggo Mortensen racchiudono l’epitome di una società sempre più ibridata e fuori controllo, costretta a fare i conti con le conseguenze imponderabili della scienza (in questo senso, il declino di Saul ricorda per certi versi quello di Seth Brundle in "The Fly").
Il crimine è il presente
Se il corpo è quello che siamo, quello che abbiamo per interagire con la realtà, allora la coscienza e il giudizio umano rappresentano il motore che permette al corpo di plasmarsi e autoregolarsi. Il rischio è che l’abuso del libero arbitrio in questo punto cruciale della storia umana possa dare corso a una linea evolutiva lontana dal senso comune di "umano", fino ad arrivare a un punto di non ritorno dove la tecnologia (che è di per sé estensione del corpo umano per Cronenberg), possa risultarne preminente. È quello che accade nel corso del film, quando una drammatica e indefinita scomparsa del dolore accelera la degradante perversione masochistica dei tagli sul corpo ("surgery is the new sex"). Niente più estasi del dolore come la sigaretta spenta sul petto in "Videodrome" o gli incidenti stradali in "Crash", bensì puro piacere alienato e masochista, il "nuovo sesso".
L’esempio più lampante è però il focus del regista sul gruppo sovversivo capitanato da Lang Dotrice (Scott Speedman), il quale ha interesse affinché venga superato lo stadio evolutivo attuale. La tossicità dell’ambiente e la semi-distruzione dell’ecosistema hanno spinto la società di "Crimes of The Future" a voler scientemente sfruttare la mutazione del corpo, e quindi la possibilità di una successiva tappa evolutiva, per cercare di sopravvivere e, chissà, cercare di porvi rimedio. Lang e i suoi seguaci lo fanno mangiando e digerendo la plastica, la stessa che nel corso della (nostra) evoluzione umana ha causato conseguenze scellerate e nefaste. E qua sta il talento creativo di Cronenberg, quello cioè di avanzare un trattato sci-fi di sociopolitica dove denuncia e per certi tratti satira (si pensi ai dialoghi legati al "nuovo sesso") abbracciano la vitalità artistica, la curiosità, la seduzione perversa di questo crimine che è il presente.
Cronenberg torna sì nel campo del body horror dopo più di vent’anni, ma non rinuncia alla sua "propaganda di evasione" alla stessa stregua e con la stessa enfasi delle pellicole degli ultimi vent’anni. La schizofrenia e la psicanalisi, la criminalità e la violenza, il capitalismo e la brama di potere e di successo sono le mutazioni intellettuali che hanno arricchito il suo pensiero nell’arco della sua carriera. "Il cinema, nel bene e nel male, nel progresso o nella reazione, è sempre propaganda", come sosteneva Ugo Casiraghi. Propaganda d’idee, di pensiero, di verità, oppure propaganda di evasione, per l’appunto, di "oppio", di falsificazioni. "Crimes of The Future" è il compendio straordinariamente costante e coerente di un pensiero cinematografico lungo mezzo secolo, dove alla mutazione dei corpi degli anni Settanta e Ottanta si completano quelle mentali, esplicitamente più politiche e sociali degli anni Duemila e Duemiladieci.
"It’s time to stop seeing, it’s time to stop speaking, it’s time to listen". Il monito del regista arriva nel bel mezzo di una performance artistica, quasi fosse l'arte stessa l'unica fonte salvifica capace di allontanare l'uomo dallo spettro dei crimini del futuro. O forse ci siamo già dentro. In fondo, le microplastiche presenti nei mari, i microchip sottopelle e tutti gli innesti chirurgici nel campo della medicina più sperimentale fanno di noi dei seguaci di Dotrice, anche se non lo sappiamo o non lo vogliamo ammettere. La burocratizzazione, i tecnicismi che vengono spesi con ridondanza durante il percorso narrativo (New Vice, Unità Crimini Corporei, Registro Nazionale degli Organi, Life Form Ware, solo per citarne alcuni) oltre alla verbosità smodata, fuori controllo, acuiscono il senso di profondo smarrimento umano e di ineluttabilità di fronte a un futuro asettico, in disfacimento. Dove la politica e la giustizia sembrano invisibili (come le indagini della polizia) ma sono in realtà strettamente, dispoticamente ancorate al potere (gli organi sono di proprietà del governo). Il futuro è quindi esposto alla potenziale comparsa di tumori ideologici, ancor più che organici.
Mappare il caos
La gestazione di "Crimes of the future" nasce nel 1999, dopo le riprese di "eXistenZ" (a cui il film visivamente deve molto). Se tracciamo una mappa che dal titolo omonimo degli esordi datato 1970 giunge fino a quest’ultimo, potremmo facilmente intuire che il processo creativo alla base del progetto abbia abbracciato l’intero arco di carriera del Nostro. Il film si pone infatti come l’evoluzione definitiva del cinema di Cronenberg. Qualsiasi film precedente è incredibilmente interconnesso con "Crimes of The Future". Gli accostamenti potrebbero essere infiniti: l’evoluzione intermediale da Vhs ad anello/videocamera in "Videodrome", il tema della scienza e delle conseguenze sul corpo umano di "The Fly", il tema della morte e della chirurgia in "Dead Ringers", l’inconsistenza narrativa di "Naked Lunch" a favore dell’intellettualismo, l’inganno in "A History of Violence", la verbosità estenuante in "Cosmopolis"...). Ancor più, sembra che anche lo spazio circostante sia lo stesso già calcato dai suoi personaggi nei film precedenti. Il porto con la barca relitto dove si rifugia Max Renn nel finale di "Videodrome" è lo stesso che fa da sfondo alle confabulazioni tra Saul e il detective Cope, gli interni angusti e giallognoli sembrano essere quelli di "Naked Lunch" e "Spider". Anche se tutto nasce ovviamente dal film del 1970 che ha posto le basi per la germinale idea di "una forma di vita che si riproduca in modo innovativo".
È in questo acerbo e sperimentale lungometraggio che assistiamo per la prima volta alla mutazione continua del corpo, anche se la malattia è vista in modo nettamente diverso, più "umana". Anche nel film del '70 la cospirazione utilizza imprevedibili terminologie, il "Gruppo Oceanico Podologico", per esempio, o la "Spuma di Rouge", la bava bianca che segna l’inizio della perversa attrazione per la morte, oltre all’imprevedibilità del controllo del proprio corpo, un tema sviscerato precocemente e ripreso da Cronenberg soprattutto in "eXistenZ".
E poi c’è un ultimo tassello. Forse il più importante. Quello dove la disamina artistica, ideologica e sociopolitica si arrende. È la sostanza stupefacente del suo cinema, l’esperienza audiovisiva quasi mistica da cui lasciarsi trasportare. Il cast tecnico concorre in larga parte alla creazione di questa ultima droga cronenberghiana, dalla dolorosa e sentita performance di Mortensen ai claustrofobici primi piani che racchiudono i protagonisti in una bolla oscura e sospesa (gli interni, il sarcofago, il letto) che amplificano sensorialmente l’ossessione della morte per il regista (eloquente il corto di 56 secondi "The Death of David Cronenberg", reso pubblico il 19 settembre 2021), alle scenografie della fidatissima Carol Spier che catapultano lo spettatore nel solito mondo fatiscente e scarno, composto da interni evanescenti e arrugginiti ed esterni imbrattati e inghiottiti dal nero della notte, fino alle musiche solenni, quasi assillanti di Howard Shore, che si elevano imponenti soprattutto in due occasioni: la prima nella meravigliosa sequenza della prima operazione chirurgica, la seconda nell’ultima, lancinante, sequenza nella quale il cadavere di un bambino viene smembrato pubblicamente agli occhi degli astanti. Operazione tanto inevitabile quanto struggente, perché abbiamo bisogno di mappare il caos del futuro per sapere dove stiamo andando. Ecco che allora "Crimes of The Future" è al tempo stesso epitome e (a detta di chi scrive) commiato della meravigliosa carriera cinematografica di David Cronenberg. È questa l’ultima grande mutazione, l’ultima grande estasi. Un volto fotografato in un bianco e nero che squarcia lo schermo. Una lacrima che ci ricorda chi siamo, cosa siamo. Ora sta all’umanità decidere da che parte andare.
cast:
Viggo Mortensen, Léa Seydoux, Kristen Stewart, Scott Speedman, Denise Capezza
regia:
David Cronenberg
distribuzione:
Lucky Red
durata:
107'
produzione:
Argonaut Productions, NEON, CBC, MUBI, Serendipity Point Films, Telefilm Canada, Ingenious Media
sceneggiatura:
David Cronenberg
fotografia:
Douglas Koch
scenografie:
Dimitra Sourlantzi
montaggio:
Christopher Donaldson
costumi:
Mayou Trikerioti
musiche:
Howard Shore