"Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi…". A leggere Matteo 10,16 e i versetti successivi, gli uomini appartengono a una o all’altra schiera, alle pecore o ai lupi. Secondo la parola di dio non esistono che due categorie di individui.
In un mondo così inteso, i protagonisti del film devono scegliere da che parte stare. Isabella Ragonese – tinta corvina che cola accanto all’orecchio, piercing e cicatrice nell’angolo della bocca – è alla guida di un’auto e conduce due uomini. Ai piedi di un palazzo le viene detto di attendere mentre i passeggeri scendono. L’inquadratura dall’alto del parabrezza allerta lo spettatore (o sollecita un déjà-vu): un corpo precipita e sfonda una macchina (come in "Collateral" di Michael Mann). Quando gli uomini rimontano, lei finge spietatezza. Ma questo rancore lugubre, questo mood alla Lisbeth Salander di "Millennium" non basta: Ragonese era magnifica nel "Nuovomondo" di Crialese e in "Sole cuore amore" di Vicari, ma non è lupo. Il suo personaggio possiede due identità, poliziotto sotto copertura e fixer della malavita, e vive un limbo a metà tra la prima e la seconda; nello stesso limbo si muove l’interprete, ed è come se trattenesse il respiro per la maggior parte delle scene, perché il ruolo non le si addice; "la meravigliosa interpretazione" di cui riferisce qualche testata sembra un giudizio affettato; la bravura di Ragonese volge altrove. Arcangeli, dal canto suo, lupo lo è stato: nel sorprendente "Muto di Gallura" di Matteo Fresi indossava il costume del leggendario bandito sardo; qui invece è un piccolo rapinatore, arrabbiato e di animo tenero, un personaggio funzionale alla trama.
Il senso della storia si rivela piano, in modo intermittente, come un impianto di luci che tremolano prima di accendersi. Il ritmo conta pochi strappi, di lieve intensità, e buona parte del film scorre lungo un alveo incavato con cautela. Le vicende dei protagonisti seguono corsi indipendenti ed è difficile immaginare come e quando possano congiungersi. C’è questo signorotto del crimine serbo con i suoi bravi: sono carogne della peggior specie ma non si riesce a odiarli visceralmente, non come si odierebbero Genny Savastano di "Gomorra" la serie o Manfredi Anacleti di "Suburra" il film. Ed è all’incontro con il malavitoso che i fatti di Ragonese e Arcangeli s’intrecciano. È sufficiente uno sguardo tra i due: c’è qualcos’altro, qualcosa di nascosto, perché il mondo non può essere fatto solo di pecore e lupi. Delle loro storie, però, è possibile afferrare pochi brandelli: una provenienza comune e un predicatore, Tommaso Ragno, perentorio come il dio del versetto di Matteo. Se Ragonese ha due identità soffocate sotto un unico costume, Arcangeli è un delinquente ma anche un padre che ama la figlia, interpretata da Carolina Michelangeli, una bambina paralizzata dalla crudele indifferenza degli adulti. Sono poche tracce biografiche, adatte a un episodio pilota, come suggestioni di qualcosa a venire, nondimeno sufficienti a sviluppare la trama e darle compiutezza.
L’intreccio, tuttavia, segue un percorso troppo prudente, nonostante lo sceneggiatore, Filippo Gravina, abbia cofirmato negli ultimi anni script coraggiosi come "Veloce come il vento" o "La terra dei figli". "Come pecore in mezzo ai lupi" è un buon esordio. Lyda Patitucci mantiene un buon registro dalle prime scene fino alle sequenze dell’assalto al blindato, dove l’azione è concentrata. I novantanove minuti della pellicola sono proporzionati al contenuto narrativo e al suo sviluppo. Una maggiore ambizione, nella scrittura di storia e personaggi, avrebbe reso il film meno fiacco e aggiunto qualcosa di originale a un genere largamente esplorato.
cast:
Isabella Ragonese, Andrea Arcangeli, Tommaso Ragno, Carolina Michelangeli, Clara Ponsot, Gennaro Di Colandrea
regia:
Lyda Patitucci
distribuzione:
Fandango
durata:
99'
produzione:
Groenlandia, Matteo Rovere
sceneggiatura:
Filippo Gravino
fotografia:
Giuseppe Maio
scenografie:
Paola Soldini
montaggio:
Giuseppe Trepiccione
costumi:
Sara Fanelli