[Attenzione: il primo paragrafo presenta potenziali spoiler sulla serie “Wandavision", utili ai fini dell’analisi. Non essendo indispensabili alla lettura della recensione completa, si consiglia a chi non avesse ancora visto la serie e ne fosse interessato, a partire dal secondo paragrafo]
In un flashback dell’ottavo episodio di "Wandavision", la piccola protagonista, per imparare l’inglese, guarda estasiata il "Dick Van Dyke Show" trasmesso tramite videocassette su un piccolo televisore. E proprio a misura di sitcom costruirà il suo mondo, in sintonia con la struttura della serie stessa. In "Black Widow", Natasha Romanoff (Scarlett Johansson) ripete le battute di "Moonraker - operazione spazio", che vede sullo schermo del proprio pc portatile, ispirandosi forse a James Bond nell’eleganza delle sue pose. Anche nella casa in Ohio in cui trascorre l’infanzia con i genitori, sovietici sotto copertura, la TV è sempre accesa e propone cartoni animati. Come per la serie, anche per il film (la storia delle origini di Vedova nera, un gioco di spie, maschere, voltafaccia) diventa centrale il discorso sul potere delle immagini, sull’inganno di tutte quelli finzioni che per lungo tempo si credono (o si vogliono credere) reali.
Gli elaborati titoli di testa (un’eccezione per i film Marvel, che solitamente presentano questo tipo di operazione in quelli di coda), propongono frammenti della Storia, tramite un rapido susseguirsi di filmati d’archivio ed amatoriali, per mostrare cosa accadde alla protagonista, alla sorella Yelena (Florence Pugh) e a tante altre bambine come loro, in un clima post Guerra Fredda. Ma poi, la drammaticità e la complessità degli eventi passati resta ai margini (come accadeva per le ombre del nazismo nelle avventure di "Captain America") e il focus si sposta sul terreno più abituale, ovvero lo sguardo sul presente, per provare a cogliere e farsi specchio delle istanze che lo animano. Al centro qui le figure femminili, definite "bambole" dagli uomini, quando in realtà ne costituiscono la mente o il braccio operativo, nella strenua lotta per ottenere il pieno controllo delle proprie vite. E così, come del resto tante altre eroine del panorama contemporaneo (a partire da quelle bessoniane) le vediamo impegnate in situazioni solitamente associate alle loro controparti maschili: pilotare un elicottero nelle avversità per portare in salvo le proprie figlie, lanciarsi in inseguimenti in moto a rotta di collo, progettare ingegnosi meccanismi informatici, bere rilassate birra al tramonto.
Non è allora un caso che "Black Widow" sia il primo capitolo della saga diretto in solitaria da una donna ("Captain Marvel" era stato affidato alla coppia Anna Boden/Ryan Fleck): l’australiana Cate Shortland ("Lore", "Berlin Syndrome") che però come da prassi viene ingabbiata dai meccanismi rodati inscalfibili che la reggono, risultando piuttosto anonima. Sono le spettacolari scene d’azione a fare la voce grossa, ma queste sono più riconducibili al team di effetti digitali e di previsualizzazione, che programma persino le macchine da presa perché replichino i movimenti progettati al computer. Ormai è noto: tolti i pochi casi in cui l’impronta del regista-sceneggiatore riesce a emergere (Taika Waititi in "Thor Ragnorok", James Gunn con "Guardiani della galassia") e nell’attesa di vedere come se la sarà cavata il fresco premio Oscar Chloé Zhao con "Gli Eterni", il vero "autore" qui è sempre Kevin Feige, il presidente della casa di produzione, che tiene le redini del loro grande universo cinematografico. E chissà se, come rende ancora più evidente la serie "Loki", in onda nel momento in cui scriviamo, le tante parole spese sul libero arbitrio non siano vagamente allusive al desiderio di poter divergere, diventare una "variante" dai pattern e dalle vie del canone predisposte a monte.
Obbiettivo che però "Black Widow" non raggiunge, né tantomeno persegue: si presentava come il primo prequel della saga, ma a conti fatti pecca nell’essere il solito prodotto "medio" Disney, senza un approccio peculiare che possa supportare tutte queste tematiche, come potevano essere ad esempio la fantasmagoria 3D di "Doctor Strange" o le sentite istanze afroamericane di "Black Panther". E così, applicando il bilancino e mettendo sul piatto tutte le dinamiche comuni e ricorrenti a tutti i film Marvel (nonché a buona parte dei blockbuster contemporanei) all’attivo troviamo la grandeur di alcune sequenze, come da prassi a metà (fuga dal carcere nella neve), e in conclusione (combattimento aereo) della storia. Al passivo, la consueta dose di (auto)ironia (qui affidata soprattutto a un pacione David Harbour e a siparietti domestici) ridondante e superflua, un villain (Dreykov/Ray Winstone) che non ha spessore ma è mera funzione; infine le tante. troppe, pause introspettive, condite da riflessioni più volte ripetute e blandi simbolismi che veicolano una morale che ruota attorno al concetto di famiglia, altro cardine ormai frequentatissimo, da "Gli Incredibili" agli ultimi "Fast and Furious". Come opus n° 24 dell’UCM, questo non può (più) bastare per promuoverla in pieno…
cast:
Scarlett Johansson, Florence Pugh, David Harbour, Rachel Weisz, Ray Winstone, O. T. Fagbenle:, William Hurt
regia:
Cate Shortland
titolo originale:
Black Widow
distribuzione:
Walt Disney Studios, Motion Pictures
durata:
133'
produzione:
Marvel Studios
sceneggiatura:
Eric Pearson
fotografia:
Gabriel Beristáin
scenografie:
Charles Wood
montaggio:
Leigh Folsom Boyd, Matthew Schmidt
musiche:
Lorne Balf