"Thor: Ragnarok", terzo instalment delle avventure dedicate al figlio di Odino, inizia con un prologo autoironico che ricorda da vicino quelli del dittico "Guardiani della Galassia". Il supereroe si trova in gabbia e si rivolge (in)direttamente al pubblico specificando che la situazione non è grave come può apparire, in quanto l'essere imprigionato e rischiare la vita facevano parte integrante del suo piano. "Perché questo è quello che fanno gli eroi", conclude Thor. E in effetti il piano riesce nonostante le minacce del demone Surtur, che vaticina la fine di Asgard per l’irreversibile approssimarsi del Ragnarok. Thor, coadiuvato dal fidato Mjolnir (il martello del dio del tuono), sconfigge Surtur e si appropria della sua corona, l'elemento essenziale per l'avverarsi della fatale profezia del demone.
L'autocoscienza di Thor, consapevole di avere un pubblico a cui parlare e di essere l'eroe della storia, palesa la presenza di un'ironia postmoderna piuttosto inedita per un eroe classico, la cui provenienza mitologica aveva portato Kenneth Branagh a spingere sugli echi shakespeariani nel primo "Thor". Il neozelandese Taika Waititi, invece, demistifica l'impianto supereroistico sin dalle prime battute che forniscono le coordinate entro cui "Ragnarok" è stato concepito e sviluppato. Dopo il prologo, inserisce una sequenza in cui Odino assiste alla drammatizzazione teatrale della morte di Loki avvenuta nel secondo capitolo. L'esercizio parodico rispetto ai trascorsi della saga è acuito dal particolare non indifferente che è Loki stesso, con le fattezze di Odino grazie alla magia, a dirigere la messa in scena della propria dipartita, rendendola tragica ed eroica.
L'operazione di Waititi sonda i limiti della formula dei cinecomic appartenenti al Marvel Cinematic Universe e, al contempo, ne dimostra involontariamente la resilienza rispetto alle intrusioni autoriali e alle rielaborazioni eterodosse. Narrativamente scandito nei tre atti della sceneggiatura hollywoodiana, Waititi presenta nel primo l'ibridazione, si libera di quasi tutte le catene nel secondo e ritorna inevitabilmente nei ranghi nell'atto conclusivo.
Il primo atto finisce con un momento fatidico: il commiato di Odino che confessa ai figli di stare per morire e che, dopo la sua scomparsa, verrà liberata la primogenita Hela, invincibile dea della morte che aveva imprigionato millenni prima per la sua inestinguibile sete di conquista e di distruzione. Il seguito avviene rapidamente, come da copione: Odino muore, Hela riappare e distrugge il Mjolnir; Loki e Thor cercano di riparare ad Asgard attraverso il Bifrost ma vengono raggiunti dalla dea che li sbalza fuori dal ponte dell’arcobaleno, raggiungendo la meta.
Nel secondo atto, il racconto si biforca: da una parte, Hela che impone un nuovo regime nella città degli dei, dall'altra Thor e Loki che si ritrovano catapultati a Sakaar, pianeta-discarica governato dall'istrionico Gran Maestro di Jeff Goldblum. Diventa presto evidente, però, come a Waititi interessi poco ciò che accade ad Asgard: sono sequenze che fungono da parentesi nella space opera messa in campo dal regista e utile solo per poter riannodare i fili dell'intreccio nel finale. Waititi segue la lezione di James Gunn, facendo di Thor un misfit che deve ricostruirsi un'identità dopo aver perso il padre, il martello-coperta di Linus e la propria patria (accompagnato a distanza da Loki, in una dinamica da Red & Toby). Approdato a Sakaar, infatti, il regista si sbizzarrisce nella descrizione di questo pianeta in cui il vanesio Gran Maestro organizza giochi gladiatori vinti sempre dal suo campione, un gigante verde di nome Hulk. È sicuramente il segmento narrativo più estroso e divertente del film, quello in cui Waititi sfrutta a suo piacimento i riferimenti agli intrecci dei film del MCU per gestire le interazioni tra i personaggi in maniera irriverente, riuscendo a cogliere di sorpresa il proprio pubblico.
Pur non venendo mai meno a un esercizio parodico, a tratti francamente estenuante, col quale Waititi sabota qualsiasi momento pervaso da serietà o da solennità, al terzo atto tocca comunque il compito di riordinare gli elementi sparpagliati dal regista in angoli diversi dell’universo, riportando protagonisti e plot ad Asgard per la battaglia decisiva. Il viaggio di maturazione di Thor è classico nella sua prevedibilità e la rivoluzione rispetto allo standard marvelliano è più formale, linguistica che sostanziale. Se da una parte il regista stravolge tono e registro della saga dedicata al supereroe norreno, dall’altra l’innovazione viene smorzata in un risultato ibrido, che mantiene lo schema narrativo di fondo – benché messo alla berlina. "Thor: Ragnarok" è una stravaganza nel MCU la cui bizzarria è probabilmente sia lo spunto di maggior interesse sia il limite più evidente, per un film destinato a essere parimenti sottovalutato e sopravvalutato.
cast:
Chris Hemsworth, Tom Hiddleston, Cate Blanchett, Tessa Thompson, Mark Ruffalo, Jeff Goldblum, Idris Elba, Karl Urban, Anthony Hopkins
regia:
Taika Waititi
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
130'
produzione:
Marvel Studios
sceneggiatura:
Eric Pearson, Craig Kyle, Christopher L. Yost
fotografia:
Javier Aguirresarobe
scenografie:
Dan Hennah, Ra Vincent
montaggio:
Joel Negron, Zene Baker
costumi:
Mayes C. Rubeo
musiche:
Mark Mothersbaugh