Il capitolo secondo del
reboot della saga de "Il pianeta delle scimmie" ha un respiro più ampio rispetto al
film che l'ha preceduto. I primi minuti del film ci mostrano tramite un infografico rappresentante la superficie terrestre e stralci audio di notiziari televisivi, come il virus ALZ-113 (rilasciato accidentalmente dagli umani al termine de "L'alba del pianeta delle scimmie") abbia progressivamente contaminato l'intero globo, annientando gran parte del genere umano. I pochi sopravvissuti cercano di andare avanti come possono, senza l'ausilio di energia elettrica. Dieci anni dopo, a San Francisco, un gruppo di umani cerca di convivere con le scimmie fuggite tra i boschi, il segreto alla base della loro straordinaria intelligenza è una leggenda metropolitana alla quale in pochi credono. Le scimmie, al contempo, si stanno evolvendo, riescono a comunicare con il linguaggio dei segni (alcune oralmente), organizzano battute di caccia, possono cavalcare, hanno istituito una sorta di istruzione di base per far capire ai loro simili, sin dai primi mesi di vita, che la violenza non è mai la soluzione. Cesare, il paziente zero del virus che ha reso i primati quel che sono, è un leader saggio e un combattente valoroso, che tenta di bilanciare cautamente i rapporti con i diffidenti umani e la volontà di vendetta di alcuni suoi compagni feriti. Ma la tregua tra le due specie è appesa a un filo molto sottile; quando un coraggioso umano (Jason Clarke) chiede la collaborazione di Cesare per far tornare in funzione una diga che garantirebbe alla baia di San Francisco l'energia elettrica, l'iniziale idillio tra scimmie e umani inizia a vacillare rapidamente a causa delle fazioni più violente dei due schieramenti. E la guerra diventa imminente.
In questo primo sequel della saga targata 20th Century Fox cambia quasi tutto: scompare il cast "umano" della pellicola precedente, e lo staff tecnico è completamente rinnovato. Restano gli sceneggiatori Rick Jaffa e Amanda Silver, affiancati stavolta dall'esperto in cinema
action Mark Bomback ("
Unstoppable", "
Wolverine - L'immortale"), ma il regista è Matt Reeves, una scelta inusuale e coraggiosa che si rivela però la carta vincente della pellicola. Già autore del
monster movie "
Cloverfield" (che ha inaugurato una serie di riflessioni sul ruolo dell'immagine nel cinema recente, oltre ad aver anticipato il realismo estetico del nuovo "
Godzilla") e del remake dell'horror "
Lasciami entrare" ("
Blood Story", uno dei pochi rifacimenti che è riuscito nell'impresa di rispettare, aggiornare e ad aggiungere un anima struggente alla pellicola originale), Reeves sposta il baricentro della pellicola dalla riflessione bioetica sulle conseguenze della ricerca scientifica, a quello sui limiti della tolleranza, sulla labilità che separa il giusto dal sbagliato, e sulla fragilità del concetto di "pace". E crea un kolossal singolarmente cupo e adulto che è anche un potente monito contro l'inevitabilità della guerra -tanto più attuale se si pensa a recenti situazioni politiche come lo scontro Israele-striscia di Gaza- in cui alla fine non c'è nessun eroe, non ci sono né vincitori né vinti.
Spostando definitivamente sullo sfondo i personaggi umani (il lato più debole della pellicola precedente) interpretati da un cast di bravi caratteristi (tra cui spicca il sempre eccelso Gary Oldman) Reeves eleva al rango di protagoniste assolute le scimmie (digitali), segnando definitivamente (discorso affrontato solo poche settimane fa a proposito del nuovo "
Transformers") la vittoria del
postumano nel nuovo cinema hollywoodiano. Le scimmie realizzate ancora una volta in CGI basandosi però sulla sempre più perfezionata
performance capture (Andy Serkis che da movenze e voce a Cesare sarebbe da premiare con l'Oscar), sono in scena molto di più dei loro avversari umani, e il coraggio e l'innovazione di questo sequel risiedono anche nella scelta di far interagire tra loro queste creature solo attraverso segni o movimenti del viso, privilegiando, finalmente, il potere delle immagini sopra a quello della parola. Reeves intelligentemente non fa patteggiare per nessuna fazione, ci ricorda che la guerra è sbagliata, ma che "l'uomo non perdona", e ci avverte pessimisticamente che l'ideale di un mondo in pace dove diverse razze possano convivere in tranquillità potrebbe essere un'utopia irrealizzabile. Riflessioni alte e ambiziose, che sono accompagnate da altrettante citazioni "colte", dall'emozionante "The Weight" della
The Band in colonna sonora, alla
graphic novel "Black Hole" di Charles Burns (che racconta, non a caso, di un manipolo di giovani malati emarginati dalla società) che è regalata dal giovane Alexander (il cresciuto Kodi Smit-McPhee) allo scimpanzé Maurice, ai riferimenti ai precedenti film della saga de "Il pianeta delle scimmie". Tutto all'interno di un meccanismo spettacolare perfettamente oliato, appassionante e intelligente come soli pochi blockbuster negli ultimi anni.
In definitiva un sequel che migliora e supera di diverse lunghezze il già pregevole capitolo precedente, e che, per una volta, lascia lo spettatore con il desiderio di vedere e sapere di più, in attesa del terzo capitolo della trilogia, che i lauti incassi che questo "Apes Revolution" sta raggranellando ovunque, dovrebbe ormai aver reso una certezza.