Cosa c’è alla base dell’idea di cinema di Scott Cooper?
I temi come la crisi economica della provincia americana, famiglie stravolte dalla violenza e dalla povertà, coppie di fratelli che si portano dietro traumi fin dall’infanzia, spesso nati all’interno delle mura domestiche. Una narrazione lineare che lavora sull’accumulo di eventi e snodi drammaturgici disseminati nel procedere della storia, una messa in scena cupa che alterna interni claustrofobici a esterni in cui il paesaggio – sia postindustriale di piccole città svuotate dalla chiusura di fabbriche o miniere sia quello delle praterie o delle montagne boschive – diventa proscenio di violenza e morte fisica e morale. La scelta di una fotografia che predilige una palette di colori freddi e l’utilizzo di una luce plumbea. E, soprattutto, ricca di cliché: il cantante country alcolizzato, geniale e dannato di “Crazy Heart”; i fratelli dalla personalità border line tra autodistruzione e conservazione in “Il fuoco della vendetta”; il gangster irlandese nemico pubblico numero uno che più cattivo e spietato non si può in “Black Mass”; gli indiani che non sono così cattivi e i soldati bianchi che non sono così buoni in “Hostiles”.
Tutto questo è presente anche in “Antlers” (con un tremendo sottotitolo didascalico perché le “corna” non erano di buon auspicio, ma fa figo lasciare l’originale inglese), film horror in cui la rivisitazione della leggenda del Wendigo – sorta di dannazione panteistica che trasforma le persone in mostri che sono un incrocio tra un cervo e un cannibale – diventa lo spunto per illustrare il Male insito nella natura dell’uomo: piccola città in crisi dopo la chiusura della miniera in cui la popolazione per sopravvivere è dedita alla produzione e allo spaccio di metamfetamine in cui si muovono un giovane sceriffo e sua sorella insegnante nella locale scuola. Sorella e fratello che hanno subito violenze da parte del padre, pieni di traumi e problemi, con lei fuggita e poi tornata dopo la morte del genitore. Ex alcolizzata, è lei che si accorge che un ragazzino della sua classe sta vivendo un trauma inenarrabile.
Cooper si cimenta nell’horror sotto l’egida produttiva di Guillermo del Toro e in questo caso è stato un fattore più negativo che positivo. La presenza del regista-produttore con il suo immaginario e la forte personalità ha inserito elementi personali come il personaggio del bambino che è il vero protagonista della storia (ad esempio, in “Cronos” o “Il labirinto del Fauno”) oppure il wendigo quale derivazione degli strani esseri del regista messicano: c’è una scena in primo piano del mostro in cui la mimesi del volto umano sulla bestia è uguale a quella dell’insetto in “Mimic”.
Appare quindi come il genere in questione non fosse proprio nelle corde di Cooper e all’interno di una struttura narrativa e a temi cari al regista americano, già sviluppati in maniera più risoluta e compiuta in precedenza, soprattutto nelle sue due pellicole migliori (“Il fuoco della vendetta” e “Hostiles”), gli elementi orrorifici sono totalmente frutto della visione di del Toro. Ma questa ibridazione appare fallace e “Antlers” risulta essere meccanico nel susseguirsi degli eventi, in un processo che, fin dalle prime scene, rende palese lo svolgimento e il finale.
Ma assodiamo che lo spettatore non conosca del Toro e nemmeno i precedenti di Scott Cooper e rimaniamo su “Antlers” come prodotto e cerchiamo di capire cosa non funziona.
Innanzi tutto, nell’horror contemporaneo è ora di finirla con l’utilizzo di cliché ormai smunti e consunti. Intendiamoci, non è sempre una cattiva idea, basta che essi siano reinventati e rielaborati e Scott – come abbiamo detto – nel passato è stato anche bravo (ma non sempre).
In questo caso però non si può più vedere un personaggio come la direttrice della scuola che si inoltra nella casa del mostro sentendo rumori e versi strani totalmente sola, si inoltri in bui corridoi e salga le scale infilandosi letteralmente nella fauci della bestia. Oppure quando abbiamo le iterate vittime che compiono le medesime azioni avvicinandosi nel capanno vicino alla casa di notte, dopo morti già viste e sospette, facendo sempre la stessa fine.
Insomma, se andava bene negli anni 70 del secolo scorso, non va più bene negli anni 20 di questo secolo. E una prima discriminante tra un ottimo horror moderno – “It Follows”, ad esempio – e uno brutto passa nel momento in cui si intuisce che se sei di fronte al Male non lo si affronta come vittima sacrificale ma si cerca di sfuggirgli e combatterlo con la conoscenza e la consapevolezza.
Nell’horror contemporaneo il cliché deve essere ribaltato, destrutturato e ricreato e non semplicemente reiterato come fa Cooper. E non è sufficiente portare sullo schermo metafore del malessere della società contemporanea - questo il genere lo ha sempre fatto dai tempi di George Romero e dei suoi zombi – ma diventa fondamentale oltre il cosa anche il come e il perché. A queste due domande Cooper fornisce risposte già date in precedenza oppure alquanto superficiali come la conferma della crisi sociale-economica legata a quella morale della famiglia (e viceversa): il padre che cannibalizza i propri figli, la comunità che mangia i suoi cittadini, la società che consuma le risorse naturali.
cast:
Keri Russell, Jesse Plemons, Jeremy T. Thomas, Graham Greene, Amy Madigan
regia:
Scott Cooper
titolo originale:
Antlers
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
99'
produzione:
Searchlight Pictures, Double Dare You Productions
sceneggiatura:
Nick Antosca, Scott Cooper, C. Henry Chaisson
fotografia:
Florian Hoffmeister
scenografie:
Cheryl Marion
montaggio:
Dylan Tichenor
costumi:
Karin Nosella
musiche:
Javier Navarrete