Cinema e mondo del lavoro si rincorrono fin dalle origini, fin da quando uno dei primissimi film girati dai fratelli Lumière immortalava l’uscita degli operai dalle loro officine di Lione. Uno sguardo documentario (ante litteram) per un tema, quello del lavoro appunto, che ha avuto anche svariate rappresentazioni a soggetto, restando comunque sempre (o quasi) saldamente ancorato a dinamiche strettamente realistiche.
Non si pone il problema della scelta tra fiction e non-fiction Erik Gandini, che utilizza il format a lui più congeniale – il documentario – per raccontare il lavoro del presente e del futuro, in un’ottica comparativa sia su un piano temporale che sotto un profilo geografico e socioculturale.
Dalla Corea del Sud del superlavoro, dove si lavora così tanto da costringere il governo a promuovere politiche e campagne volte a incentivare la riduzione dell’attività lavorativa, arrivando a imporre lo spegnimento coattivo dei computer alle 18.00; agli Stati Uniti in cui la cultura del lavoro è retaggio di una tradizione secolare di derivazione religiosa.
Dall’impiego di stato del Kuwait, dove i cittadini vengono tenuti a far niente nei ministeri sovraffollati, pagati per passare come meglio credono le loro giornate, purché lo facciano tra le quattro mura degli uffici, per dare una parvenza di dignità sociale a una nazione che ancora può permettersi di galleggiare sui proventi del petrolio; all’Italia dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non seguono alcun corso di formazione professionale, e che trascorrono le loro giornate nello svago, spesso rassicurati da solide consistenze patrimoniali familiari.
Si muove tra questi quattro mondi apparentemente lontani "After Work", introducendo in quel coacervo di rappresentazioni anche alcune storie parallele parzialmente difformi da quelle scelte come linee guida. E così l’Italia è sì la patria dei NEET e della disoccupazione volontaria, ma è anche rappresentata da un paio di ereditieri che per loro ammissione non vogliono starsene con le mani in mano, dilettandosi in hobby da privilegiati. Allo stesso modo, gli Stati Uniti sono la patria dell’etica del lavoro e dei giorni di ferie gettati alle ortiche, ma anche di chi è pronto a non sacrificare la propria dignità qualora si arrivi a superare quella soglia che in molti hanno già superato (il riferimento esplicito è ai corrieri Amazon che urinano nelle bottiglie, deriva contemporanea del cottimo già raccontataci da Ken Loach in "Sorry We Missed You").
Se la prospettiva comparativa di taglio geografico-culturale porta lo spettatore a spostarsi continuamente tra questi quattro paesi e le loro peculiari problematiche legate al mondo del lavoro, la prospettiva temporale introduce invece il secondo grande quesito del film: cosa accadrà in futuro, quando l’automazione e l’intelligenza artificiale faranno aumentare la disoccupazione, rendendo superflua la prestazione lavorativa di milioni di persone in giro per il mondo? È questo il tema – già toccato in passato da Gandini in "Surplus" (2003) – su cui intervengono i due nomi più illustri tra quelli di chi esprime un parere sulle questioni poste dal film. Due persone di ideali e orientamento opposti, ma che arrivano a convergere quando c’è da confrontarsi sul futuro del lavoro.
Noam Chomsky e Elon Musk vedono come inevitabile la sostituzione delle macchine al lavoro dell’uomo. Il primo però si concentra sulla funzione che tale sviluppo dovrebbe avere nel migliorare la vita delle persone. Il secondo, con il pragmatismo che lo contraddistingue, si focalizza invece sui possibili effetti: la disoccupazione di massa, appunto, e la necessità di introdurre un "reddito di base universale" che possa garantire il sostentamento di chi non avrà la possibilità di trovare un lavoro.
Avete capito bene: il nuovo campione della destra americana, quell’Elon Musk che prima o poi si metterà sulla scia di Trump per dare l’assalto alla Casa Bianca dalla sponda repubblicana, è un promotore – almeno a parole – del reddito di cittadinanza. Quello strumento che è di fatto già operativo nel Kuwait del "lavoro simulato". Quello strumento che solleva le rimostranze dell’alta borghesia italiana (il compagno dell’ereditiera) sulla base di pretese argomentazioni meritocratiche - anche se, va detto, in un contesto parzialmente difforme da quello prospettico della disoccupazione di massa susseguente all’automazione dei processi di lavoro.
Ma "After Work" apre anche una questione più sottile, più filosofica e comunque collegata alla precedente: meglio una società di schiavi o presunti tali, di lavoratori sfruttati e malpagati, oppure una di esseri umani sostanzialmente inutili e irrilevanti, mantenuti e foraggiati come meri consumatori per tenere in vita il sistema produttivo che non ha più bisogno di loro come forza lavoro? E ancora: posta la costante dell’insoddisfazione umana, è meglio l’infelicità che deriva dalla frustrazione di un lavoro non appagante oppure quella prodotta dall’autopercezione della propria inutilità produttiva?
Domande che non lasciano spazio a una terza via, quella dell’alternativa radicale al sistema capitalistico-produttivo, con Gandini che sembra aver accantonato quella prospettiva anticonsumistica illustrata diffusamente nel già citato "Surplus". Nel 2003, del resto, la globalizzazione era per molti un nemico da combattere. Oggi, passati vent’anni, lo sembra molto meno, essendo stata ormai accettata dai più come ineluttabile conseguenza del progresso.
In ogni caso, il silenzio degli intervistati di fronte al quesito esplicitamente posto dall’intervistatore – se tu avessi uno stipendio mensile senza lavorare, che cosa faresti? – è in tal senso emblematico.
Tutto interessante e tutto stimolante, insomma. E non soltanto per i temi trattati. "After Work" lo è anche da un punto di vista formale e stilistico, visto che dietro la macchina da presa c’è quell’Erik Gandini già assurto alle cronache nel 2009 per il documentario sul sistema berlusconiano della tv commerciale "Videocracy". Quell’Erik Gandini già prezioso confezionatore di una serie di importanti ed efficaci lungometraggi non-fiction su tematiche sociopolitiche (oltre al già citato "Surplus", vanno citati almeno "Sacrificio" e "Gitmo", la coppia di mediometraggi girati da Gandini insieme a Tarik Saleh, di recente giunto nelle sale con "La cospirazione del Cairo").
Di quei film Gandini ripropone lo stile peculiare e suggestivo che utilizza soprattutto il sonoro per creare un’atmosfera in cui musica e parole diventano una colonna sonora di mantra ridondanti ma assolutamente incisivi, una sorta di tormentoni che ricordano i ritornelli dei brani pop-commerciali piuttosto che le battute da operetta. Uno stile che Gandini ha utilizzato fin dalle sue primissime opere, ma che qui non porta mai all’esasperazione, come aveva fatto invece in "Surplus".
Fondamentale, a questo riguardo, la collaborazione, ormai ventennale, con Johan Söderberg, che è accreditato – in modo inusuale – sia del montaggio che delle musiche: ed è proprio tramite il montaggio e il montaggio sonoro che si ottengono quei peculiari effetti, tramite il missaggio di soundtrack sempre efficaci e frasi estrapolate dai discorsi degli intervistati e ripetute svariate volte alla stregua di jingle.
Insomma, non si può dire che Gandini non si sforzi di imprimere un connotato autoriale alle sue pellicole e non si può dire che non ci riesca, pur affrontando temi complessi e stratificati come quelli del lavoro e del suo futuro. Temi che chiaramente meriterebbero uno sviluppo ben maggiore di un documentario di ottanta minuti scarsi, ma ciò non toglie che si tratti di una buona base di partenza per riflessioni più strutturate su un argomento importante.
cast:
Noam Chomsky, Elon Musk
regia:
Erik Gandini
distribuzione:
Fandango
durata:
77'
produzione:
Fasad, Propaganda Italia, Indie Film
fotografia:
Fredrik Wenzel
montaggio:
Johan Soderberg
musiche:
Johan Soderberg