Ancora il Cairo, ancora suspense, ancora Fares Fares, ma stavolta Tarik Saleh lascia il giallo e il neo-noir per approdare nel territorio del thriller spionistico. Alla base del soggetto del film vi è innanzitutto "Il nome della rosa" di Umberto Eco, lettura da cui il cineasta, per sua stessa esplicita ammissione, sarebbe rimasto assai colpito. Perché tuttavia da essa potesse scaturire un film originale era necessario estrapolare gli elementi portanti della vicenda da quel contesto storico e contaminarli con la tinta spionistica. Saleh, infatti, dimostra anche in quest'opera di sapersi servire del contesto storico, ma non fino al punto da farvi annegare i propri personaggi impaludandoli, confondendoli con la massa, bensì riservando loro uno spessore sufficiente a garantire sia che il libero arbitrio venga agito, sia che il conseguente giudizio del pubblico sia indotto a discriminare con attenzione.
Altra scaturigine alla base del film è il rapporto conflittuale tra Stato e religione, che viene drammaturgicamente tradotto nella sorda lotta tra gli imam, gli sceikh da un lato, e gli apparati di sicurezza e le autorità politiche dall'altro. La sceneggiatura del film, peraltro premiata a Cannes, è il risultato di una riscrittura nella quale il protagonista (e conseguentemente il pubblico) è prima ignaro, poi consapevole e infine potenziale vittima di quanto gli accade intorno.
Orbene, sulla qualità della sceneggiatura è opportuno ritornare dopo aver riepilogato la sinossi della pellicola. Il film ha un esordio assai graduale e si prende i suoi tempi per descrivere l'ambiente familiare di Adam, il protagonista. Questi è un giovane di umili condizioni, cui il padre, un burbero e rigido pescatore, tuttavia non si oppone quando la buona sorte (o meglio la volontà di Allah!) sembra aver bussato alla sua porta, materializzandosi in una borsa di studio per la frequenza della prestigiosa Università di Al-Azhar. Il passaggio dal semplice villaggio di pescatori alla caotica capitale è un itinerario che, come detto in precedenza, relega la città sullo sfondo. Per quanto il giovane venga infatti indotto da un compagno di corso a lasciarsi andare alle frivolezze della mondanità, è nella scuola coranica che si decidono i suoi destini.
In seguito alla morte di un suo compagno, Ibrahim, un colonnello dei servizi segreti, col pretesto di fare luce sull'omicidio, convince Adam a infiltrarsi negli ambienti religiosi più chiusi e riottosi a sottomettersi alle autorità dello Stato. La missione dovrà consistere inoltre nell'impedire che un imam sgradito alle autorità politiche prenda il posto di quello che è inopinatamente defunto. Ora, l'abilità di Tarik Saleh sta nel fatto che il film, all'interno di una cornice spionistica, pur cassando ogni riferimento storico e cronologico preciso, introduce una serie di circostanze e di affermazioni che lo rendono una riflessione sul potere in quanto tale. Ciò è palese quando, ad esempio, un membro dei servizi segreti si lascia andare alla frase "Non ci possono essere due faraoni", o quando nel finale si afferma "Il potere è una doppia lama: c'è sempre il rischio di ferirsi a una mano".
Che Saleh si sia voluto abilmente servire del genere spionistico per poi tradirlo con consapevolezza, allontanandosene e rimarcando così una più decisa autorialità, può aver favorevolmente impressionato i giurati di Cannes. Purtuttavia permangono alcune criticità nella sceneggiatura, ad esempio il rocambolesco salvataggio di Adam ad opera di Ibrahim giunto sul minareto quando il giovane viene pesantemente minacciato, o l'estrema facilità con cui il protagonista (che ha inizialmente tutti i tratti del personaggio ingenuo e bonario) fa ricadere su un compagno responsabilità proprie. Per tutte queste ragioni, "Omicidio al Cairo" (2017), nonostante sia un'opera più facile e che senza osare si limita a contaminare comodamente il neo-noir con il thriller di marca scandinava, è per ragioni di compattezza e rotondità più riuscito rispetto a "La cospirazione del Cairo". Buone invece, in generale, le prove attoriali dell'ultimo film, soprattutto quella di Fares Fares nei panni del luciferino agente dei servizi segreti. L'attore, che si conferma vero pigmalione del regista, è assolutamente a suo agio nella parte e la sua ambiguità pare acuita dalla folta barba e dal fatto che si muova sempre in borghese.
Una considerazione la meritano anche gli spazi: la città è mostrata quasi sempre di notte e più che un luogo è un punto di passaggio, anche perché la macchina da presa è per lo più in movimento; l'altro luogo decisivo è il ministero degli Interni, che esibisce tutti i crismi della burocrazia, le pose ieratiche, i formalismi, i ritratti alle pareti, i passaggi obbligati all'ingresso, quasi moderni cunicoli prima di accedere alla cripta del potere; significativamente più semplici gli accessi all'al-Azhar, dove inoltre ampi spazi facilitano l'interazione tra sheikh, imam e studenti e anche il fatto di indossare un abbigliamento del tutto identico sembra annullare le distanze gerarchiche.
cast:
Tawfeek Barhom, Fares Fares, Mohammad Bakri, Makram Khoury, Sherwan Haji, Jawad Altawil, Ramzi Choukair, Samy Soliman, Hassan El Sayed
regia:
Tarik Saleh
titolo originale:
Walad min al-Janna
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
126'
produzione:
Atmo, Memento Production, Oy Bufo Ab, Final Cut for Real, ARTE France Cinéma,
sceneggiatura:
Tarik Saleh
fotografia:
Pierre Aïm
montaggio:
Theis Schmidt
costumi:
Denise Östholm
musiche:
Krister Linder