In James Mangold convivono due anime distinte e ben riconoscibili, quella autoriale e quella puramente commerciale.
La prima la ritroviamo in opere come "Ragazze interrotte", nell’esordio "Dolly’s Restaurant", per certi versi in "Cop Land" e in particolare in "Logan", quando ha saputo portare il cinecomic in territori (allora) inesplorati, soprattutto in casa Marvel.
L’anima commerciale di Mangold, invece, è esplosa soprattutto nella seconda parte della sua carriera, a partire dal pasticcio action di "Knight and Day" e proseguendo con il primo cinecomic da lui diretto (quello per nulla autoriale di "The Wolverine"). Fino alla consacrazione a erede nientemeno che di Steven Spielberg nel portare avanti un franchise epocale come quello di Indiana Jones ("Indiana Jones e il quadrante del destino"). Ma la vena commerciale di Mangold era in realtà già emersa fin dai primi tempi, quando il suo eclettismo nell’abbracciare i generi (una delle innegabili peculiarità del regista newyorkese) lo aveva spinto fino a dedicarsi alla rom-com più prevedibile ("Kate & Leopold").
Con "A Complete Unknown" Mangold rispolvera il biopic musicale, già utilizzato quasi vent’anni fa in "Walk the line", quando raccontò vita e opere di Johnny Cash, che qui ricompare in un ruolo secondario. "A Complete Unknown" è invece dedicato a Bob Dylan, con scelta rischiosissima sia per il soggetto e sia per la possibilità di doversi trovare a competere, ancorché a distanza di parecchi anni, con un'operazione particolarmente riuscita e indimenticata come "Io non sono qui" di Todd Haynes.
E invece Mangold, con buona pace dei rischi, approfitta egregiamente dell’occasione per mostrare come le sue due anime di regista, quella autoriale e quella commerciale appunto, possano venire a sostenersi vicendevolmente.
Innanzitutto, "A Complete Unknown" è un film commerciale perché si innesta in un filone, quello del biopic musicale, che solo qualche anno fa era clamorosamente in voga (soprattutto per questioni commerciali, appunto), fino all’inevitabile abuso che ne ha determinato una altrettanto inevitabile decadenza con il conseguente tentativo di provare a riportarlo in auge (c’era riuscito solo in parte Baz Luhrmann con il suo "Elvis").
"A Complete Unknown" è poi, inevitabilmente, un film commerciale perché si affida completamente a una delle superstar di Hollywood del momento, un Timothée Chalamet che si rivela all’altezza del compito, non soltanto nella seconda parte del film, quella dedicata alla "svolta elettrica" di Dylan, per la quale sembrava talmente tagliato da rendere la scelta di casting pressoché scontata. Chalamet funziona anche nella prima parte, quella del Dylan giovane folkettaro sognatore ma determinatissimo, profondendosi in un grande lavoro sulla parlata e sul canoro. C’è da dire, a tal proposito, che Mangold ha imparato a gestire divi praticamente da subito (avere quattro attori come Stallone, De Niro, Keitel e Liotta, già consacrati, nel proprio secondo lungometraggio è cosa che non molti registi possono vantare); e soprattutto c’è da dire che i divi lui li sa dirigere (non dimentichiamo che ha fatto vincere un Oscar ad Angelina Jolie).
Infine, "A Complete Unknown" è un film commerciale per alcune scelte piuttosto didascaliche, non ultima quella dei cartelli informativi finali che ricordano, tra le altre cose, che Dylan ha vinto il Nobel per la letteratura (come se fosse necessario ricordarlo).
Eppure, in "A Complete Unknown" Mangold riesce a far emergere distintamente anche il suo lato autoriale. Nel raccontare la storia di Bob Dylan dagli esordi alla "svolta elettrica" bersagliata dai fischi al Newport Folk Festival del 1965, Mangold porta in scena efficacemente due grossi temi, esulando dalla tradizionale mission del biopic.
Da un lato c’è il tema dello scontro tra cambiamento e tradizione - e in senso lato tra progresso e reazione - con l’aggiunta di un elemento di complessità di grande suggestione e per nulla banale, il fatto cioè che la protesta antisistema si sviluppa inizialmente proprio in quegli ambienti che si dimostreranno poi avversi al cambiamento - e dunque proponendo un altrettanto interessante analisi della querelle tra forma e sostanza, tra forma e contenuto.
In secondo luogo, Mangold costruisce una parabola della mentorship che è allegoria dell’atavico scontro tra padri e figli, scandagliando il rapporto tra Dylan e il folk singer Pete Seeger (un sorprendente Edward Norton), suo tutor degli esordi, ma anche rappresentando l’incomunicabilità forzata con colui che è il padre putativo (artisticamente parlando) del Dylan degli esordi, un Woody Guthrie ormai privo di quasi tutte le sue facoltà.
"A Complete Unknown" evidenzia poi esplicitamente il proprio approccio autoriale nel momento in cui Mangold piazza la macchina da presa, nei duetti tra Dylan e Joan Baez, come ipotetica terza voce al microfono, perpendicolarmente ai due artisti, con una prospettiva che rivendica chiaramente un ruolo.
In "Rolling Thunder Revue", Martin Scorsese interrogava Dylan sulla riuscita o meno dell’omonimo tour, ricevendo una risposta eloquente: fu un fallimento dal punto di vista commerciale, ma fu una grande avventura. E Mangold mettendo al centro del terzo atto del suo film lo shock di Newport ‘65 - dunque un (apparente) fallimento, là dove i biopic più tradizionali lasciano spazio al trionfo - sembra intercettare in pieno lo spirito di Dylan, presentando "A Complete Unknown" per quello che è: semplicemente, una straordinaria avventura.
cast:
Timothée Chalamet, Monica Barbaro, Elle Fanning, Edward Norton, Boyd Holbrook
regia:
James Mangold
titolo originale:
A Complete Unknown
distribuzione:
Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia
durata:
141'
produzione:
Range Media Partnersm Veritas Entertainment Group, The Picture Company, Turnpike Films
sceneggiatura:
James Mangold, Jay Cocks
fotografia:
Phedon Papamichael
scenografie:
François Audouy, Regina Graves
montaggio:
Andrew Buckland, Scott Morris
costumi:
Arianne Phillips
musiche:
Bob Dylan