Il passato non si può cambiare. È un tormentone, forse una profezia che si autoavvera, di molti film a tema viaggio nel tempo. "Indiana Jones e il quadrante del destino" conferma che non è possibile neanche emularlo, il passato – la trilogia originale di Spielberg-Lucas resta leggenda. E dimostra che, rispetto al passato, è possibile fare peggio. Molto peggio.
È un pastrocchio notevole questo quinto episodio diretto da James Mangold. Le prime sequenze, ingannevoli, sembrano incoraggianti: nazisti, anni 40… fin qui è un decoroso déjà-vu; c'è un forziere destinato al führer e qualcuno pronuncia "lancia di Longino". Parrebbe questa la nuova avventura di Indiana Jones; non semplice archeologia ma, ancora una volta, avrebbe a dire il padre, "una lotta contro l’armata delle tenebre". Bastano pochi minuti a far svanire la suggestione perché appare un prigioniero – "Amerikaner!" – dalla testa coperta: con l’ingenua fretta di mostrare il protagonista, quasi a rassicurare il pubblico di fronte a un film incerto, ecco Harrison Ford anni 80, con un lifting offerto dai mezzi prodigiosi e posticci del nostro cinema. L’azione, come i guai, non si fa attendere.
Fuggito, Indiana si lancia all’inseguimento a bordo di un sidecar; le scene di "L’ultima crociata" sono un ricordo, perché qui l’azione è pasticciata. Il protagonista questa volta si tuffa in corsa da un’auto a una moto; l’eroe intuitivo e spericolato diventa un banale macho americano; non è colpa del gesto in sé, né di inquadrature e montaggio a casaccio, e non riguarda la nostalgia per il terzo episodio (quell’assalto al carrarmato a galoppo di un cammello…); l’impresa è goffa, nella messinscena prima ancora che nei movimenti della controfigura, quasi a significare che non c’è lifting che possa restituire il vecchio Indy. La scena peggiora quando, tempo della narrazione, fine anni 60, il professor Jones, anziano e pensionato, abbatte gli scaffali di un archivio in un maldestro tentativo di fuga. E tocca il fondo, se possibile, nello scontro in albergo, dove le sane logiche che governavano sparatorie e scazzottate scemano e, come in un film di John Wick, e meglio che in Bud Spencer e Terence Hill, gli avversari si dispongono per essere colpiti o elusi. Nel "Regno del teschio di cristallo" si era ricorso alla mite e dubbia ironia sul protagonista per giustificarne le prodezze tardive; qui invece ciascuna sequenza sembra una prova scenica o una continua parodia.
In fondo non importa che il film abbia una sua tenuta. Conta solo il successo al box office, scodellando un kolossal grossolano, nello stile vorace della Disney. Ma il box office, pare, non ha risposto bene. Per quanto "Il quadrante del destino" abbia conquistato il primo posto al botteghino, la casa natale di Topolino, secondo Fortune, è delusa dalle cifre: 70 milioni di dollari negli Stati uniti più 60 negli altri paesi, 130 in totale nel primo weekend; un "disastro" secondo quanto ha scritto l’analista Anthony D’Alessandro su Deadline, e un dato insignificante se confrontato con i 271 milioni iniziali del "Regno del teschio di cristallo" nel 2008 o i 212 dei "Predatori dell’arca perduta" nel 1981 – altri tempi, quelli, con altri spettatori. Per questo quinto episodio Disney ha stimato, riporta Fortune, un incasso finale globale di 152 milioni di dollari; un’entrata insoddisfacente per un film costato, se fa fede l’indiscrezione di D’Alessandro, più di 300 milioni. Un’impresa strampalata, secondo questi dati, al pari della cavalcata di Indiana dentro il tunnel della metropolitana (cavalcata contromano, se fa qualche differenza, e contro la volontà del cavallo).
Ma il film di Mangold è inconsistente per altre ragioni. "Il quadrante del destino", per cominciare, non ha un personaggio decente. La coprotagonista Helena, Phoebe Waller-Bridge, riassume se stessa in una battuta: "Come sono diventata così? Così come? Bella, coraggiosa, indipendente…?". È un cliché mancato, questo personaggio, una "protagonista femminile forte", come l’etichetta a uso di alcune piattaforme. È ancora Helena a sfoderare battute a effetto, improprie, come nel mezzo dell’asta – "Lui ruba, tu rubi a lui, io rubo a te; si chiama capitalismo" (laddove capitalismo è, piuttosto, il modus operandi della Disney: tutto profitto, quando riesce, e bassa qualità). La sceneggiatura è banale quanto i personaggi. L’antagonista, interpretato da Mads Mikkelsen, è uno degli uomini più celebrati negli Usa e un nazista sopravvissuto della prima ora; un autentico genio, capace di portare l’uomo sulla Luna e di uccidere per raggiungere il suo scopo; nonché un tontolone che si beve, in un primo momento, lo spiegone abbagliante di Helena sulla posizione della macchina di Archimede, cercata e contesa da tutte le parti, durante una menata a metà tra la supercazzola involontaria e l’improvvisazione archeologico-linguistica.
Sorge il dubbio, in questa e altre scene, di assistere a un nuovo "Uncharted". Ma gli sceneggiatori di questo quinto disastroso episodio, incalzati dalla fretta famelica della produzione, magari, hanno fatto ricorso a funambolismi pur di coprire l’avventura con una patina fantastorica. Perché la storia, a dar retta agli autori di "Uncharted", è un fatto di cosmesi. Altri personaggi sono del tutto privi di scopo, come questa figura in bilico tra una black panther e un agente di un fantomatico servizio segreto: donna, afroamericana, sicura di sé; capace di evidente teletrasporto, se riesce, come riesce, a stanare Indy, dopo la sua galoppata strampalata, all’altro capo della linea metropolitana. Ci sono pure i camei: il vecchio e fedele Sallah (John Rhys-Davies), dal volto stagionato e levigato con cura, a far da tassista per due sequenze appena; Antonio Banderas, chiamato a farfugliare un paio di battute prima di morire; Marion-Karen Allen, anche lei reclutata per rimpianto. Una nostalgia esibizionista tormenta, in apparenza, autori e produzione. Ai quali sfugge il concetto, già chiaro in prima età scolare, che un personaggio ha diritto a esistere solo se ha una funzione nella storia. Che Steven Spielberg abbia approvato lo script del film, che lo abbia ritenuto valido poco importa, anzi rattrista.
Infine, il soprannaturale. Era una cifra di Indiana Jones: il soprannaturale come elemento fantasticato e intangibile e mai come fatto narrativo. È pur vero che, nella conclusione del primo film, l’Arca dell’Alleanza esplodeva il suo potere divino; ma l’eroe e Marion tenevano gli occhi chiusi affinché, in epilogo, tutto sembrasse un sogno; a dispetto di quanto mostrato, lo spettatore, identificandosi con i protagonisti, continuava a coltivare il mistero. Qualcosa di simile avveniva nel "Tempio maledetto", con il cuore strappato a un uomo vivo, che vivo resta, e nell’"Ultima crociata", in occasione del salto della fede o al cospetto del cavaliere immortale: Indiana vede, tocca e continua a dubitare; contrariamente alla parabola di san Tommaso, l’incredibile continua a meravigliare fin tanto che il protagonista è scettico e cerca spiegazioni alternative. Persino nel deludente "Regno del teschio di cristallo", a pensarci, la scena degli scheletri alieni, culmine della fantascienza nella saga, era risparmiata alla vista dell’eroe.
Nel film di Mangold, invece, Indiana Jones è gettato nel soprannaturale, rappresentato non a caso come tempesta; nell’intenzione degli autori, chissà, questa esperienza indica il culmine della carriera dell’archeologo (e dell’avventuriero del soprannaturale): Indiana entra letteralmente nella storia (e nella fantastoria). Le flebili parole da lui pronunciate poche scene prima sono già dimenticate: "Non credo nella magia, ma ho visto, nel corso degli anni, cose che non ho saputo spiegare". Troppo tardi, insomma, l’incantesimo è rotto e non c’è luogo di proiezione, a Cannes o a Taormina – dove il film è stato mostrato in anteprima –, né location – questo pasticcio scenografico, con i paesaggi di Segesta e Siracusa incollati in sequenza come un unico luogo, da Sicilia-cartolina – che possa ricomporre la magia. Il muro trasparente tra scienza e fantascienza e tra storia e leggenda è stato abbattuto, e in modo maldestro. Alla fine dell’avventura, Indiana Jones crede. È lo spettatore, viceversa, ad aver perso la fede.
cast:
Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Mads Mikkelsen, Antonio Banderas, John Rhys-Davies, Karen Allen, Toby Jones
regia:
James Mangold
titolo originale:
Indiana Jones and the Dial of Destiny
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
154'
produzione:
Walt Disney Pictures, Paramount Pictures, Lucasfilm
sceneggiatura:
James Mangold, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp
fotografia:
Phedon Papamichael
scenografie:
Adam Stockhausen
montaggio:
Michael McCusker, Andrew Buckland, Dirk Westervelt
costumi:
Joanna Johnston
musiche:
John Williams