recensione di Eleonora Grossi
Signore e signori Mr. Johnny Cash. Signore e signori, noi non contiamo nulla. "Walk the line" è uno di quei film che lasciano addosso una sensazione di annichilimento e profondo rispetto, che per un paio d'ore spalanca le porte a tutto quello che abbiamo sempre amato e guardato da lontano. Dalla prima visita di Mr. Cash alla Sun Records, non più che un ufficetto di provincia, al tour vissuto sulla strada, tra polvere e sudore, tra Jerry Lee Lewis, Carl Perkins, Roy Orbison ed Elvis ventenni che si aprono la strada verso la gloria sempiterna (geniale il vero e proprio manifesto della Sun spiegato da Jerry Lee Lewis: "God said not to touch the apple. He didn't say have a nibble, He didn't say touch it every once in a while! He said "Don't. Touch. It." Don't think about touchin' it, don't sing about touchin' it, don't think about singing about touchin' it. Don't touch it!"). Storia della nascita di un mito. Come l'Iliade recitata ai posteri, come la genesi del mito, come il racconto orale capace di innalzare gli animi a qualcosa di grande ed epico, di catturare l'attenzione dell'auditorio con formule fisse come "Ring Of Fire" e "Cry, Cry, Cry".
Questo film racconta la storia di un amore, quello eterno tra Johnny Cash e June Carter, e non una storia d'amore, come l'agghiacciante titolo italiano - "Quando l'amore brucia l'anima", maldestra traduzione del tagline americano "Love is a burning thing" - vuole farci credere. Quella che vediamo sullo schermo è la storia di un eroe e della sua lotta per innalzarsi al cielo. Manifesto di una generazione di bianchi che amava la musica dei neri che non amavano il mondo dei bianchi, della musica e del rock'n'roll che davvero, quello sì che brucia l'anima. Il ritratto di June Carter non poteva essere più fresco e reale, come donna coraggiosa e già divorziata negli anni 50, compagna d'arte, prima che di vita, dell'uomo dalla grande ombra.
L'approfondimento psicologico dei personaggi si deve alla biografia ufficiale di Cash: "A man in black" e, di Cash e Patrick Carr, "An Autobiography", ancor prima che ai primi piani della meravigliosa faccia di Joaquin Phoenix, faccia scelta peraltro da Cash stesso, così come Reese Whiterspoon per impersonare June Carter (entrambi gli attori hanno preso sei mesi di lezioni di canto).
James Mangold ha sempre permesso al suo pubblico un punto di vista privilegiato. Ci basti pensare a "Girl, Interrupted" (1999), diario di una Winona Rider spostata (che benché tratto dal libro di Susanna Kaysen non può non ricordarci una giovanissima Sylvia Plath) e del suo incontro con Angelina Jolie, disarmante e disperata anima biondo platino, che mai uscì dal suo inferno. Mangold firmò anche "Copland" (1997), dove un Sylvester Stallone grasso, affatto muscoloso e mezzo sordo cercava di tenersi a galla nella città degli sbirri corrotti, con un Harvey Keitel cattivo quanto il suo più cattivo tenente.
Non ci stupisce, dunque, che la regia faccia saltar fuori dallo schermo lo spirito di Mr. Cash: la tragica morte del fratello, l'alcolismo del padre, il perbenismo della moglie Vivian, benpensante e scandalizzata casalinga (interpretata benissimo da Ginnifer Goodwin, originaria di Memphis, Tennessee, che per questa pellicola è riuscita a impersonare quanto di più estraneo alla sua natura).
Poi l'incontro con il rock'n'roll prima e con June Carter poi - perché il rock'n'roll non affascina donne che non siano come lei, capace di tenere testa a un pubblico e una compagnia di soli adulti - fino alla tossicodipendenza di Cash, alla sua astinenza, alla sua caduta e alla sua rinascita, capace di farlo rigare dritto. L'uomo in nero (Vivian Cash: "With you all dressed in black, you look like you're goin' to a funeral". Johnny Cash: "Maybe I am..."), rimase al fianco di June dal giorno in cui la conobbe, per seguirla anche nella morte a distanza di soli tre mesi: Johnny Cash: "Tell me you don't love me". June Carter: "I don't love you. Johnny Cash [grinning]: You're a liar".
Andate a vederlo. Tante volte.
04/06/2008