Tra arte e spettacolo la 73a edizione della Mostra di Arte Cinematografica di Venezia prova a tenere il passo della concorrenza senza perdere di vista le ragioni della propria identità
Consuntivo finale
Nell'edizione che secondo le intenzioni del direttore Albertto Barbera aveva il compito di dialogare con il grande pubblico a vincere è stato "The Woman Who Left" il film più cinefilo di tutti, quello che per stile e lunghezza aveva tenuto lontano dalla sala una parte degli addetti ai lavori. Se per il filippino Lav Diaz, la conquista del Leone D'oro è la consacrazione di una filmografia vissuta senza compromessi il gran premio alla giuria assegnato a Tom Ford per "Animali notturni" potrebbe rappresentare l'inizio di un'altra altrettanto sorprendente e ambiziosa. Scontata la Coppa Volpi all'argentino Oscar Martinez, migliore attore per l'ottimo "Il cittadino illustre", lo è stata meno quella di Emma Stone che batte sul filo di lana l'agguerrita concorrenza di Natalie Portman ("Jackie") e Amy Adams (due volte in concorso). Tra le scelte più discutibili operate dalla giuria di Sam Mendes ci sono la sopravvalutazione di Ana Lily Armipour, premio speciale della Giuria per il deludente "The Bad Batch", e di Andrey Konchalovsky, a cui è andato ex aequo il premio alla regia per "Paradise", premiati a discapito di Damien Chazelle ("La La Land") e Pablo Larrain ("Jackie"), autori dei film più apprezzati del concorso. Il cinema italiano esce dalla competizione con le ossa rotte, tornando a casa con attestati di simpatia ("Piuma") e un sacco di polemiche legate alla discussa selezione (non per noi) di "Spira Mirabilis" e soprattutto di "Questi giorni" di Giuseppe Piccioni, terminato in fondo alla classifica delle stellette assegnate dai giornalisti internazionali presenti alla Mostra. Le cose sono andate meglio nelle sezioni collaterali, dove tagli emergenti troviamo Marco Danielli con il drammatico "La ragazza del mondo" e Alessandro Aronadio autore del pirandelliano "Orecchie". Menzione speciale per Francesca Di Giacomo, che in "Liberami" - vincitore a sorpresa della Sezione Orizzonti - riscrive l'iconografia del cinema dedicato alle possessioni del maligno con un documentario che racconta l'universo degli esorcisti italiani. Senza dimenticare il più bravo di tutti, e cioè Paolo Sorrentino, che nell'antipasto della serie "The Young Pope" trasforma la televisione in grande schermo e fa venire voglia di abbonarsi alla tv satellitare per vedere il seguito delle altre puntate.
Leone d'Oro per il Miglior Film
The Woman Who Left di Lav Diaz
Leone d'Argento Gran Premio della Giuria
Tom Ford per Nocturnal Animals
Leone d'Argento per la Migliore Regia
ex aequo Amat Escalante per La Región Salvaje e Andrey Konchalovsky per Paradise
Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile
Oscar Martinez per El Ciudadano Ilustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat
Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile
Emma Stone per La La Land di Damien Chazelle
Miglior Sceneggiatura
Noah Oppenheim di Pablo Larraín
Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente
Paula Beer per Frantz di François Ozon
Premio Speciale della Giuria
The Bad Batch di Ana Lily Armipour
VENEZIA 73 - CONCORSO
Paradise, di Andrei Konchalovsky
Il paradiso di Andrei Konchalovsky è una stanza in bianco e nero dove tre personaggi seduti di fronte ad un tavolo e vestiti con una camicia che sembra una divisa raccontano come fosse una deposizione le ragioni della loro presenza in quel luogo. In realtà il regista nulla ci dice a proposito dell'ambiente che fa da cornice alle storie dei protagonisti ma ce lo lascia intuire sottraendo alle immagini qualsiasi indizio di realtà che invece si riversa con tutta la sua tragicità nelle scene più drammatiche, quelle che ancora una volta di riportano all'olocausto e ai campi di concentramento dove per opposti motivi si ritrovano una aristocratica russa emigrata in Francia ed entrata nella resistenza e un ufficiale delle SS che un tempo era stato amante della donna. Formalmente ineccepibile (quadro a formato ridotto e immagini stilizzate) "Paradise" smarrisce per strada il terzo personaggio e paga dazio quando si tratta di trovare nell'arte i motivi di un vero coinvolgimento.
voto: 6
Une vie, Stéphane Brizé
Tratto da un racconto di Guy de Maupassant il regista francese Stephane Brizè porta sullo schermo l'esistenza infelice di Jeanne, figlia dell'aristocrazia francese che ama la vita e ne viene tradita per l'assoluta fiducia che vi riversa. Alle prese con le regole del film in costume Brizè le tradisce con una rappresentazione totalizzante che fa a meno della ricostruzione d'epoca per concentrarsi sui tormenti del personaggio, la cui anima si riflette sullo schermo attraverso una serie di scelte formali che dal formato ristretto del quadro alla continuità sul piano del montaggio dei diversi piani temporali ha come intento quello di rendere l'interiorità della protagonista. La resa è affascinante ma il dispositivo messo a punto da Brizè avrebbe bisogno di maggiore sostanza narrativa per compensare il fatto che il personaggio di Jeanne non riuscendo a staccarsi dai luoghi della propria infanzia dal punto di vista psicologico tende a idealizzare un nucleo ristretto di situazioni che a livello filmico provocano un senso di ripetizione a volte irritante, a volte involontariamente comico.
voto: 5,5
Voyage of Time, Terrence Malick
Per quello che lui stesso ha definito il film della sua vita, lungamente agognato e finalmente portato alla luce dopo una gestazione di circa quarant'anni Terence Malick a voluto fare le cose in grande. Esistono infatti due versioni di "Voyage of Time: la prima di quaranta minuti è stata assemblata con gli accorgimenti che da ottobre le consentiranno di essere proiettata sugli schermi Imax delle sale americane con la voce narrante di Brad Pitt mentre la seconda, di novanta, presentata allo Mostra di Venezia con il commento di Cate Blanchett è quella che potrà essere vista nel resto delle sale Rispetto ad altre occasioni però le sorprese dal punto di vista cinematografico finiscono qui perché il viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca del senso della vita pensato dal regista americano appare come una costola del più famoso "Tree of Life" di cui il nuovo film si limita ad escludere la parte narrativa mantenendo intatta, e sviluppandola come un lungometraggio a se stante, quella cosmologica esistenziale. Nel complesso la bellezza del progetto rimane immutata ma non è sufficiente a distoglierci dal pensiero di assistere a uno splendido quanto innocuo deja vu.
voto: 6
La región salvaje, Amat Escalante
Appare evidente l'influenza di Reygadas (specie del più recente "Post Tenebras Lux"), qui in veste di produttore: ció costituisce il limite di base di un film che segna comunque un passo avanti rispetto al precedente "Heli" (miglior regia Cannes 2013), che nel suo crudo realismo contemplativo era uggiato da un rigore di stile sin troppo asfittico. "La región salvaje" è permeato da un simbolismo in parte abusato, ma che si coniuga splendidamente al rigoroso distacco di Escalante, i cui stilemi, pur saldamente controllati, vengono come trasfigurati e riscritti. Nell'alone mistico del film si percepisce anche una più lontana ascendenza tarkowskiana, così come si può individuare un omaggio a "Possession" di Zulawski in quello che è probabilmente l'aspetto figurativamente più controverso, per quanto coraggioso, di un film fascinoso proprio nel suo aprirsi a dimensioni fra loro distanti e apparentemente inconciliabili (Stefano Santoli).
voto: 7
Spira Mirabilis, Massimo D'Anolfi, Martina Parenti
Il primo film italiano in concorso alla Mostra del cinema non fa nulla per nascondere le proprie ambizioni rifacendosi fin dal titolo - "Spira Mirabilis", la spirale meravigliosa come venne definita dal matematico Jackob Bernoulli - a ideali di bellezza e di infinito che rasentano il divino. In realtà nel lavoro di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti ogni cosa ha origine da principi concreti e diremmo quasi matematici che sono il frutto di un agire umano incessante e propositivo. In questo senso "Spira Mirabilis" lungi dall'essere una racconto avulso dalla realtà si immerge nella contemporaneità per trascenderla attraverso un'esperienza (cinematografica) che impone allo spettatore il recupero di facoltà sensoriali - e i primis della vista - impigrite dall'overdose di immagini al quale quotidianamente è sottoposto. Rieducare lo sguardo per rieducare la nostra anima: sembra questo il significato ultimo di un film come "Spira Mirabilis" che arriva nel concorso con la sua anima aliena per portarci sulle tracce di ciò che non riusciamo più a vedere. Sarà forse per questo che l'immagine più significativa del film (in cui è possibile osservare la cellula di una medusa immortale), quella utilizzata per la sua promozione, è il risultato di un ingrandimento effettuato al microscopio in cui siamo in grado di cogliere ciò che di solito sfugge a occhio nudo. Di certo "Spira Mirabilis" ha bisogno di un atto di fiducia da parte di chi lo guarda, al quale viene richiesto di accettarne lo forma anti narrativo per entrare in sintonia con il flusso di informazioni proiettate sullo schermo. Meno organico del precedente "La fabbrica del duomo" e più dispersivo per il fatto di seguire più filoni narrativi (cinque come gli elementi che formano la terra) ambientati in diversi angoli del mondo, "Spira Mirabilis" è ancora una volta la risultante di un puzzle dove il Tutto deriva dall'insieme delle singole parti, tenute insieme da un montaggio che fa ricorso ad assonanze poetiche ed a suggestioni impercettibili. All'anteprima della stampa molti sono stati i posti lasciati vuoti anzitempo. Il che non è sempre un segno negativo.
voto: 7
The Distinguished Gentleman, Marian Cohn, Gaston Duprat
Ne è passato di tempo da quando nel cinema argentino si riusciva a fare film solo con narrazioni impregnate di impegno civile o volte a criticare gli orrori del passato golpista. A prendere il posto delle metafore e delle grandi costruzioni allegoriche di cui erano pieni i film di quel periodo sono oggi progetti più concreti che amano spaziare soprattutto nel cinema di genere, come testimonia il successo internazionale di thriller come "Il segreto dei suoi occhi" e "Nove regine" e di commedie sul tipo di "Cosa piove dal cielo?", comprati ed applauditi in ogni angolo di mondo. Per questo motivo destava curiosità la presenza nel concorso ufficiale di "The Distinguished Gentleman" diretto da un coppia di registi - Marian Cohn, Gaston Duprat - da anni attivi nel cinema e nella televisione ma da noi pressoché sconosciuti. La trama del loro film era di una semplicità estrema, raccontando di un illustre romanziere che all'indomani della vittoria del premio Nobel accetta di tornare nel paese natale per tenere una serie di conferenze e ricevere la cittadinanza onoraria conferitagli dai suoi concittadini. Fedeli al motto "Nemo Propheta in Patria" i registi riservano all'illustre cittadino un'accoglienza ambivalente che inizia all'insegna del tripudio e si trasforma in una resa dei conti piena di odio e di rancore nei confronti di chi è riuscito a farcela. Ed è proprio la riflessione sulla fama e sul successo artistico, con ciò che esso comporta sia in termini di opportunità - come quella di ritrovarsi nel proprio letto una fan bella e disponibile - sia per quanto riguarda i fraintendimenti che derivano dall'identificare il privato dello scrittore con quello dei suoi personaggi a creare terreno fertile per un umorismo divertente e caustico, ideale per una commedia drammatica come "The Distinguished Gentleman". Oscar Martinez nella parte di Daniel Mantovani si candida al premio per il migliore attore del concorso.
voto: 7,5
Brimstone, Martin Koolhoven
Era dai tempi del grande Paul Verhoeven e in particolare di un film come "Il quarto uomo" che il cinema olandese non dava prova di tanta sadica efferatezza. Chi si è assunto il compito di rompere il digiuno è Martin Koolhoven che in "Brimstone" fa il verso a Quentin Tarantino con un western in cui un predicatore psicopatico si diverte a perseguitare una fanciulla sterminando chiunque abbia la sfortuna di aiutarla nel corso della sua disperata fuga. A parte questo la particolarità del film consiste nel fatto che la numerazione dei diversi capitoli non corrisponde alla cronologia degli eventi ostacolando non poco la comprensione dello spettatore che di fronte alla logica di certi passaggi ha l'impressione di assistere ad un errore di montaggio. Detto che a metà del minutaggio le pedine del puzzle troveranno i giusti incastri e che le azioni dei personaggi troveranno corrispondenza con le cause che le hanno prodotte c'è da dire che a differenza dei film di Tarantino nella violenza di "Brimstone" non c'è alcun tipo di riflessione metalinguistica ne la deformazione surreale e grottesca a cui siamo stati abituati dal regista americano. Così se in termini di genere "Brimstone" può funzionare discretamente anche per la presenza di Dakota Fanning e di un cattivo da urlo interpretato da Guy Pearce, in termini di originalità le novità proposte da Koolhoven appaiono già viste anche al di fuori del cinema da festival.
voto: 6
Frantz, François Ozon
Preceduto dagli annunci della stampa francese che a proposito di "Frantz" aveva speso parole importanti al punto di scommettere su una sua possibile vittoria del suo rappresentante il film di Francois Ozon conferma la tendenza di una filmografia altalenante per l'incapacità del regista di mantenersi con costanza ai livelli delle sue opere migliori . Eppure, quella appena passata alla Mostra di Venezia aveva tutte le caratteristiche per ben figurare. La trama infatti, ambientata nella Germania del 1919 - quella uscita distrutta e sconfitta dal grande guerra - si avvaleva di un contesto storico che - caso più unico che raro - permetteva al cineasta di agganciarsi alla cronache più drammatiche della nostra contemporaneità, per le analogie tra le traumatiche conseguenze del conflitto bellico sulle vite dei personaggi con quelle sofferte da chi oggi si ritrova più o meno nella stessa condizione. Il film racconta dell'incontro tra una vedova di guerra e un musicista francese venuto a piangere sulla tomba del marito di lei a cui l'uomo era unito da amicizia fraterna. Assumendo che i parenti dello scomparso ignorano l'esistenza del suddetto legame, il lungometraggio mette in scena una storia d'amore che nasce e si alimenta sulla scia di un'assenza - quella di Frantz - che offre lo spunto per ragionare sul tema dell'identità, della dicotomia tra realtà e apparenza e sulla menzogna come condizione indispensabile della condizione umana che da sempre sono cari al cinema di Ozon. Questa volta però l'impeccabilità delle qualità tecniche (a cominciare dall'elegante bianco e nero della fotografia di Pascal Marti) il rigore formale e il controllo della messinscena non sono sufficienti a riscattare un film bello ma algido.
Voto: 5,5
El Cristo Ciego, Christopher Murray
Nel continente sudamericano la rappresentazione del sacro è uno dei territori più frequentati dai film provenienti da questa parte di mondo e come insegna il cinema di Alejandro Jodorowski, appena premiato a Locarno per i meriti di un'intera carriera, a essere privilegiata nella maggior parte dei casi è una visione dissacrante e anticonformista di tutti quegli aspetti - dogmatici, iconografici e liturgici- che di solito costituiscono il punto di riferimento insindacabile per milioni di fedeli. Per questi motivi non sorprende più di tanto l'idea che sta alla base di "El Cristo Ciego" del regista cileno Christopher Murray il quale, nel raccontare la vicenda di un ragazzo convinto di essere il nuovo Cristo e perciò di possedere i poteri taumaturgici che gli permetteranno di guarire l'amico che si è appena ammalato. Strutturato come un film on the road in cui le varie tappe necessarie a raggiungere il luogo di destinazione contribuiscono a raggiungere nuove consapevolezze e, nel caso specifico a rivelare le contraddizioni delle credenze proprie e altrui "El Cristo Ciego" possiede tutte le caratteristiche che lo identificano come opera da festival a cominciare dalla sua ambientazione, negletta quanto basta per mettere in moto speculazioni terzo mondistiche tanto care a una parte della critica, per non dire del pauperismo di cui trasuda il quotidiano del protagonista, campione di un'umanità diseredata e oppressa che sarebbe piaciuta ai registi del neorealismo. Diversamente da questi però Murray gira privilegiando immagini emblematiche che pur non arrivando alla perfezione dello stile pittorico lo ricordano per l'equilibrio della composizione visiva e nello stile di ripresa, meditato, rigoroso e attento a restituire uno sguardo privilegiato sulla materia che descrive. Il problemi vengono a galla quando si tratta di andare a tirare le fila di un lungometraggio che non riesce mai a cambiare passo, accontentandosi di farci sapere che la necessità di credere in qualcosa - o in qualcuno - è superiore al bisogno di denunciare la menzogna del suo assunto. Come Michael si sente dire dal padre che, sulla scia del successo riscosso dal ragazzo nel corso delle peregrinazioni gli ricorda l'importanza di assecondare la fede di chi è disposto a credere nelle sue virtù carismatiche.
Voto: 5
Recensioni:
La La Land, Damien Chazelle
La luce sugli oceani, Derek Cianfrance
Arrival, Denis Villeneuve (Giuseppe Gangi)
Animali notturni, Tom Ford
Frantz, François Ozon (Giuseppe Gangi)
Piuma, Roan Johnson
The Bad Batch, Ana Lily Amirpour
Une vie, Stéphane Brizé (Stefano Santoli)
Jackie, Pablo Larrain (Stefano Santoli)
Voyage of Time, Terrence Malick (Stefano Santoli)
Questi giorni, Giuseppe Piccioni
Brimstone, Martin Koolhoven (Giuseppe Gangi)
The Woman Who Left , Lav Diaz
ORIZZONTI
A Jamais, di Benoit Jaquot
Per capire il cinema di Benoit Jaquot è importante ricordare che prima di diventare regista il nostro era tra attori più amati dal pubblico francese. Da qui si spiega una filmografia che anzitutto privilegia personaggi e interpretazioni. La produzione di "A Jamais" ne è la prova, con Jaquot disposto ad accettare la proposta di realizzare la versione filmata del romanzo di Don De Lillo "The Body Art" solo a condizione di poter contare su Mathieu Amalric, ingaggiato per il ruolo di un inquieto cineasta, e su Julia Roy (anche sceneggiatrice del film), arruolata per la parte della body artist di cui Rey si innamora. Considerato che al centro della storia d'amore tra i due protagonisti c'è la riflessione sul mistero dell'atto creativo e sulla capacità del corpo di farsi opera d'arte non stupisce che "A Jamais" viva sulle performance immersive dei suoi attori. I quali, chiusi all'interno di una casa che è l'espressione dei loro labirinti mentali mettono in scena i fantasmi della vita. Prodotto da Paulo Branco che di sfide cinematografiche se ne intende "A Jamais"sconta la sua derivazione letteraria che il cinema restituisce senza raggiungerne la medesima profondità.
voto: 6,5
Dawson City: Frozen Time, Bill Morrison
Documentario di Bill Morrison incentrato sul ritrovamento, nel 1978, nel permafrost canadese a Dawson City, di un vasto numero di pellicole risalenti ai primissimi decenni del XX secolo. Il film, composto in larga parte da spezzoni di pellicole così ritrovate, è accompagnato esclusivamente da didascalie: l'ipnotica colonna musicale, unico accompagnamento sonoro, contribuisce a immergerci in un cinema ancestrale. Il valore del film non sta tanto nell'essere un prezioso esperimento di archeologia del cinema, quanto soprattutto nel mirabile esercizio con cui Morrison - arricchendo il film di molteplici assonanze e rime interne - ha fuso tra loro la storia della corsa all'oro nello Yukon (di cui Dawson era la capitale) con quella degli albori del cinema (a Dawson furono ritrovate tantissime pellicole che si credevano irrimediabilmente perdute) e con la coeva Storia mondiale, che si riflette nei cinegiornali anch'essi ritrovati a Dawson. Una sinfonia visiva ammaliante e di rara suggestione. (Stefano Santoli)
voto: 8,5
VENEZIA CLASSICI. DOCUMENTARI
David Lynch The Art Life, L. Nguyen, O. Neergaard-Holm, R. Barnes
Nel terzo lavoro che gli autori dedicano a D. Lynch dopo "Lynch One" girato durante la lavorazione di "INLAND EMPIRE", si concentrano sulla giovinezza del regista, il quale, intervistato mentre è intento a lavorare alle sue creazioni figurative, rievoca per quali vie e attraverso quali ossessioni è stato stimolato sin dall'infanzia sul piano artistico. Il ritratto si conclude con la realizzazione di "Eraserhead" e racconta anche la genesi dei precedenti cortometraggi, ma si concentra soprattutto sulle creazioni pittoriche, e su aneddoti biografici a dire il vero quasi tutti già noti. Ciò non toglie che il documentario sia particolarmente interessante per chi non conoscesse già le peculiarità del percorso artistico di Lynch e la sua genesi. Ed è interessante per chiunque contemplare la grande mole di lavori artistici figurativi non cinematografici e ben poco conosciuti, che qui viene mostrata. Peccato tuttavia non poter soddisfare la propria curiosità sul Lynch di oggi che vediamo sempre incessantemente a lavoro, né avere informazioni circa il rapporto tra le creazioni odierne e quelle risalenti a oltre 40 anni fa (Stefano Santoli).
Voto: 6
Acqua e zucchero. Carlo Di Palma, i colori della vita, Fariboz Kamikari
Fuori dal set il mondo del cinema è pieno di aneddoti che varrebbero la pena di essere raccontati. Uno di questi è certamente l'incontro tra Carlo Di Palma e Steven Nickvist avvenuto all'epoca di "Roma città aperta" quando entrambi non sapevamo ancora chi sarebbero diventati. Alla ricerca di materiale residuale da poter utilizzare nel film di Rossellini apprendiamo che il nostro si vide consegnare preziosi scarti di pellicola dal soldato Nickvist di stanza a Cinecittà dove per conto degli alleati svolgeva il ruolo di cine operatore. Di questo e altro parla "Acqua e zucchero. Carlo Di Palma, i colori della vita", resoconto privato e artistico del grande cineasta che Fariboz Kamikari ha realizzato con il contributo della moglie di Di Palma alternando immagini d'archivio e i ricordi di amici e colleghi. Dai primi contatti con i maestri del neorealismo alle collaborazioni con Michelangelo Antonioni ("Il deserto rosso" e "Blow-up" ) e Woody Allen - di cui Di Palma ha illuminato ben otto film) "Acqua e Zucchero" non ha la pretesa di spiegare l'arte di un talento inimitabile ma di celebrarne la carriera con una carrellata di immagini e parole che stimolano lo spettatore a riconsiderarne il valore e magari a rivederne i film.
voto: 7
FUORI CONCORSO
I magnifici sette, di Antoine Fuqua
Remake del western del 1960 diretto da John Sturges "I magnifici sette" di Antoine Fuqua arrivava alla Mostra dopo aver inaugurato il festival di Toronto carico di spunti che lo rendevano diversi dai semplici blockbuster. A cominciare dal modo con il quale gli autori avrebbero fatto rivivere i fasti di un classico della cinematografia e poi per verificare in che modo la scrittura metropolitana di Nic Pizzolato si sarebbe adattata alla mitologia e agli archetipi propri del genere western. Dal canto suo il discontinuo Fuqua ritrovava gli attori - Denzel Washington e Ethan Hawke - che avevano contribuito ad alzarne le quotazioni commerciali oltre al divo in ascesa Chris Pratt chiamato a confermare l'ascendente da eroe del cinema avventuroso. Solitamente esuberante Fuqua non riesce mai a trovare il ritmo e deve fare i conti con una sceneggiatura monocorde e poco generosa nei confronti dei personaggi che per questa ragione tendono a perdersi nella confusione generale.
voto: 5,5
Gantz:0, di Yasushi Kawamura
Gantz:0 è una piattaforma interattiva che entra in funzione quando si tratta di contrastare la mortale avanzata delle mostruose creature aliene che infestano le strade del Giappone. La particolarità del suo funzionamento è che il reclutamento degli eroi scelti per la missione suicida avviene tra coloro che sono già morti. O meglio che lo stanno per essere definitivamente perché essendo programmato alla stregua di un survival game "Gantz:0" in caso di sconfitta delle truppe nemiche per il vincitore c'è la possibilità di tornare a miglior vita. Realizzato interamente in CGI, l'anime diretto da Yasushi Kawamura raggiunge momenti di sorprendente realismo che riescono con le splendide coreografie dei combattimenti tra umani ed extraterrestri. Un piacere per gli occhi che non dimentica di occuparsi del cuore grazie al sentimento e forse all'amore che unisce i valorosi combattenti. Colpo di fulmine.
voto: 7,5
One More Time with Feeling, di Andrew Dominik
Per Andrew Dominik era facile fare un con il materiale musicale presente in "One More Time with Feeling". Perché i circa 35 minuti che costituiscono la performance sonora realizzata da Nick Cave per promuove il nuovo disco si ritrovano a convivere con le parole a cuore aperto del cantante alle prese con il dolore di un lutto ancora in corso per la precoce morte del figlio Arthur. Fotografato in bianco e nero dalla splendida fotografia del Benoit Debie di "Enter the Void" e " Spring Breakers" il regista utilizza il 3D per ricreare quelle caratteristiche di spazialità che sono proprie della musica e, nello stesso tempo, amplificando la rilevanza del vuoto degli ambienti della casa di Cave e della sua famiglia riesce a tradurre in immagini la mancanza provocata dalla tragedia.
voto:8
Monte, Amir Naderi
Per esplicita ammissione del regista, i suoi personaggi sono prigionieri di un'ossessione. L'ossessione è la loro linfa vitale, ciò che ne orienta le scelte. Prendete un uomo e mettetelo in un contesto avverso, dove solo tramite una scelta paradossale e incomprensibile al senso comune potrà provare a spuntarla: Naderi ne farà un film. "Monte" è la prima produzione italiana di un regista che ha girato il mondo. Ambientato in un imprecisato remoto Medioevo sulle Alpi, a ridosso delle dolomiti (il set è stato costruito a oltre 2.000 metri sul massiccio del Latemar), il film racconta la lotta per la sopravvivenza di una famiglia che vede nella colossale montagna che ne sovrasta il villaggio una specie di maledizione. La sostanza del film, come accadeva con "Cut", sta tutta nel finale: una folle sfida fra il protagonista e la montagna, che culminerà in una sequenza sorprendente. Occorre riconoscere la maestria di Naderi nel ricompensare lo spettatore dopo averne messo a dura prova la pazienza, con una catarsi evocata dalle immagini ed impossibile da restituire a parole. Va anche riconosciuto che la ricostruzione "d'epoca" è accettabile (non era ad ogni modo sicuramente ciò che interessava l'autore), ma che può risultare fastidioso ascoltare dialoghi in italiano corrente in un contesto tanto lontano nel tempo (Stefano Santoli).
Voto: 6,5
The Bleeder, Philippe Falardeau
Può essere che ai non appassionati di pugilato il nome di Chuck Wepner dica poco o nulla ma per i fan di Sylvester Stallone il protagonista di "The Bleeder", presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, fa balzare in mente in men che non si dica le immagini di Rocky Balboa che proprio alle vicende private e professionali di Wepner fu ispirato. Diretto da Philippe Falardeau ("Monsieur Lazhar") e interpretato con mimetismo degno del miglior actor studio dall'ottimo Liev Schreiber, "The Bleeder" - il sanguinolento, soprannome derivato dalle tumefazioni che ricoprivano la faccia di Wepner al termine degli incontri di boxe - ricostruisce con piglio documentaristico e un misurato senso dello spettacolo la vita del pugile che nonostante l'esclusione dagli albi d'oro dei titoli che contano qualcosa arrivò a giocarsi il titolo mondiale con il grande Mohamed Alì, al quale resistette per dodici riprese, finendo al tappeto solo qualche secondo prima del termine del match. A dispetto del personaggio raccontato nel film di John Avildsen sul quale Falardeau ritorna più volte e di cui si premura di raccontare la volta in cui il regista di "Rambo" propose al nostro di entrare nel mondo del cinema per recitare in un episodio della serie dedicata al pugile di Filadelfia, "The Bleeder" si nutre di un milieu più vicino agli anti eroi immortalati da Leonard Gardner a "Fat City" (il romanzo) con la differenza che il senso del tragico appartenuto al film di John Houston che portò al cinema il libro dello scrittore americano qui si trasforma in un malinconico e tutto sommato divertente rendez-vous con le avventure di una simpatica canaglia. Considerato che ciò che vediamo è tutto vero si rimane affascinati da come Wepner sia riuscito a sopravvivere a se stesso arrivando fino ai nostri giorni (caduto nella spirale della droga fu lasciato dalla moglie e fini in prigione con l'accusa di spaccio di stupefacenti) senza perdere neanche un pizzico del sua giovialità. Biopic in costume per il fatto che la storia è collocata tra le fine dei settanta e il decennio successivo "The Bleeder" oltre a Schreiber da adesso in lizza per un posto nella cinquina degli Oscar per il miglior attore può contare su alcune facce da cinema come Naomi Watts nella parte di Linda, la compagna dell'ultima ora e di Ron Perlman nella parte del suo manager.
Voto: 7
Recensioni:
Hacksaw Ridge, Mel Gibson
Tommaso, Kim Rossi-Stuart
The Young Pope, Paolo Sorrentino
SETTIMANA DELLA CRITICA
Recensioni:
Le ultime cose, Irene Dionisio
Introduzione: il tesoro della laguna
Preceduta dal battage pubblicitario agevolato dalla presenza di alcuni dei divi più in voga del momento, la 73a Mostra d'Arte Cinematografica si preannuncia come una delle più importanti e complesse tra quelle presiedute da Alberto Barbera. Costretto a vedersela con un festival ricco e potente come lo è quello di Toronto e intenzionato a far dimenticare la mortificante austerità della precedente edizione, il Direttore questa volta sembra non aver badato a spese allestendo un programma che dal primo all'ultimo giorno può contare su registi e attori di massimo richiamo. Da Ryan Gosling ed Emma Stone protagonisti di "La La Land", film d'apertura diretto dal Damien Chazelle dell'ottimo "Whiplash", ai vari Denzel Washington, Chris Pratt ed Ethan Hawke chiamati a chiudere la manifestazione con il remake de "I magnifici sette", la lista delle star in arrivo al Lido è da red carpet hollywoodiano, anche perché il cinema americano, forte della ritrovata fiducia nei confronti del festival, si appresta - almeno in termini di visibilità - a recitare la parte del leone: in concorso oltre al film di Chazelle figurano infatti "Arrival", del lanciatissimo Denis Villeneuve sugli incontri del terzo tipo di una glottologa (Amy Adams) chiamata a decifrare il linguaggio degli alieni, "The Light Between Oceans", melò diretto da Derek Cianfrance e allietato dai corpi della coppia Fassbender/Wikander, "Nocturnal Animals" opera seconda dell'eclettico Tom Ford alle prese con un thriller meta letterario; fuori competizione spicca il war movie di Mel Gibson "Hacksan Ridge" che nel raccontare del primo soldato americano obiettore di coscienza sembra fare mea culpa delle intemperanze del suo recente passato.
Se molti dei titoli appena citati sono destinati a finire direttamente nelle cinquine dei prossimi Academy Awards, a rigor di logica il plauso dei cinefili e i voti della giuria capitanata da Sam Mendes dovrebbero rivolgersi al cosiddetto cinema d'arte e quindi ai lavori del prolifico Pablo Larrain, dopo "Neruda" ancora alle prese con un biopic ("Jakie") per raccontare il lutto di Jacqueline Kennedy nei giorni successivi all'omicidio di JFK, così come quelli dei vari Amat Escalante ("La region salvaje") già vincitore a Cannes 2013 per la miglior regia, Lav DIaz, che un primato l'ha già stabilito grazie alla lunghezza (226') del suo "The Woman Who Left", al duo francese costituito da Francois Ozon ("Frantz") e Stephan Brizè ("Una Vie") che porta solo schermo un romanzo di Maupassant; per non parlare dei veterani Emir Kusturica ("On the Milky Road") con Monica Bellucci protagonista, Wim Wenders ("Le Beus Jours D'aranjuez", tratto da un lavoro del sodale Peter Handke) e di Terence Malick il cui "Voyage of Time" narrato dalle voci di Brad Pitt e Cate Blanchett potrebbe essere qualcosa di mai visto sullo schermo. E senza dimenticare "A jamais" di Benoit Jacquot che complice Mathieu Amalric ha il coraggio di tradurre in immagini nientemeno che "Body Art", romanzo breve di Tom De Lillo.
L'Italia presente in massa in tutte le sezioni può contare su tre film in concorso che si distinguono per le similitudini delle storie (vicissitudini giovanili sono quelle raccontate da "Questi giorni" di Giuseppe Piccioni e da "Piuma" di Roan Johnson) e per uno sguardo altro sul mondo che Massimo D'Anolfi e Martina Parenti ricercano attraverso "Spira Mirabilis", ultimo titolo di una filmografia finalmente omaggiata da una platea di prima grandezza. Tra gli esordi da seguire c'è quello di Marco Danieli con una vicenda ("La ragazza del mondo") ambientata nell'universo dei Testimoni di Geova, come pure "Liberami" della documentarista e antropologa Federica Di Giacomo che esplora l'universo del maligno incontrando persone possedute dal demonio e, seppure in una sezione collaterale della mostra (Settimana della critica), "Le ultime cose" dell'altra esordiente Irene Dionisio, autrice di tre storie destinate a intrecciarsi nella Torino dei nostri giorni.
Tornando a ragionare in termini generali si può dire che la 73a edizione del festival di Venezia abbia tra le sue priorità quella di riuscire a trovare un equilibrio tra il cinema dei grandi numeri, diventato indispensabile per sopravvivere alle spallate della concorrenza, e quello che invece predilige contenuti e linguaggi meno scontati. Non sappiamo ancora se Barbera e i suoi collaboratori siano riusciti a raggiungere questo obiettivo. Nei dieci giorni della mostra cercheremo di scoprirlo insieme a voi, dandovene conto su queste pagine.