Giunge al termine la 74° edizione del Festival di Locarno, caratterizzata dal ritorno dei film nelle sale cinematografiche e nella prestigiosa cornice di Piazza Grande, dopo la scelta, determinata dalla pandemia di Covid, di destinare allo spazio virtuale la fruizione filmica durante l’edizione del 2020
Pardo d’oro
Vengeance is Mine, All Others Pay Cash (Seperti Dendam, Rindu Harus Dibayar Tuntas) di Edwin
Premio speciale della giuria
A New Old Play (Jiao ma tang hui) di QIU Jiongjiong
Pardo per la miglior regia
Zeros and Ones di Abel Ferrara
Pardo per la miglior interpretazione femminile
Anastasiya Krasovskaya per Gerda di Natalya Kudryashova
Pardo per la miglior interpretazione maschile
Mohamed Mellali e Valero Escolar per The Odd-Job Men (Sis dies corrents) di Neus Ballús
Menzioni speciali
Soul of a Beast di Lorenz Merz
The Sacred Spirit (Espìritu sagrado) di Chema Garcia Ibarra (Spagna)
Una parte importante di questa edizione è stata rivestita dai film di genere, fra cui spiccano soprattutto la commedia e il comico: ne fanno parte "Cop Secret" (Leynilögga) di Hannes Þór Halldórsson, un action scatenato che riprende filologicamente ogni più piccolo elemento formale e clichè del genere di riferimento con l’obiettivo di esasperarli fino a scatenare la risata; "The Odd-Job Men" (Sis dies corrents) di Neus Ballús, una deliziosa commedia divisa in piccolo episodi e sketches, arricchita dalla solida esperienza documentaristica della regista, che sceglie di dirigere attori non professionisti e di non usare una sceneggiatura vera e propria, lasciando campo libero all’improvvisazione. Il comico si tinge di nero in "Heavens Above" (Nebesa) di Srđan Dragojević, un lungometraggio che fa ampio ricorso al grottesco e all’inserimento di elementi paranormali e assurdi (ad esempio, l’improvvisa apparizione di un aureola su un personaggio) per dare luogo all’innesto delle vicende, sempre più paradossali man mano che procede la trama, finendo col realizzare un resoconto amaro e profondamente negativo, seppur travestito da film comico, del passaggio dal comunismo al capitalismo della ex Jugoslavia.
Con “La Place d’une autre” di Aurélia Georges siamo invece lontani dall’ambito umoristico: la regista realizza un film storico ambientato durante la prima guerra mondiale, in cui un furto di identità permetterà a due donne di sperimentare le condizioni di vita radicalmente differenti legate alle diverse classi sociali. "Petit Solange" di Axelle Ropert si innesta invece sui binari del dramma borghese, riprendendo la trama de "Scene da un matrimonio" di Ingmar Bergman ma raccontandola dal punto di vista della figlia appena entrata nell’adolescenza.
Infine, i generi vengono mischiati fino a implodere nella pellicola premiata col padro d’oro e in "After Blue" (Paradis sale) di Bertrand Mandico. "Vengeance is Mine, All Others Pay Cash" (Seperti Dendam, Rindu Harus Dibayar Tuntas) di Edwin è infatti un interessante pulp indonesiano, che racconta combattimenti di arti marziali e corse in moto, oltre a operare un notevole mix di generi. All'interno dell'action-exploitation indonesiano, che costituisce l’ossatura del film, sono inserite tanto la commedia romantica, determinata dalla storia d’amore del protagonista, quanto il melò, che scaturisce dal tradimento della sua compagna e dal fatto che questa sia abbandonata con il figlio nato dall’adulterio. Pensato come un omaggio ai B-movie asiatici, il regista Edwin inserisce in questo lungometraggio numerose chiavi di lettura in grado di imprimere sostanza e interesse a questo mix: in primo luogo, la tematica dell’impotenza e la critica al machismo imperante tanto nella società indonesiana quanto nel genere action di riferimento. Invece, Bertrand Mandico realizza un favoloso collage di elementi visuali di provenienza diversa, oltre a un impasto molto interessante di fantascienza, erotismo, western e fantasy. Pur essendo chiaramente un film fantascientifico, essendo ambientato su un pianeta che è stato colonizzato dalla razza umana dopo che la Terra è stata resa inabitabile da guerre e devastazioni climatiche, la trama vira verso il western raccontando il viaggio di due donne incaricate di cercare e uccidere una pericolosa malvivente colpevole di aver sterminato senza pietà e senza motivo alcune persone. Le due si mettono in marcia a cavallo (unico mezzo di locomozione disponibile sul pianeta) intraprendendo un viaggio all’interno di un paesaggio disabitato e ancora selvaggio, al fine di uccidere chi ha infanto la Legge e, in tal modo, cancellare la fonte di perturbazione dell’armonia e della giustizia. Nel frattempo, le abitanti di questo pianeta sono descritte come costanti prede di una frenesia sessuale inarrestabile e il regista ce le mostra spesso intente in atti sessuali fra loro e onanistici, innestando una forte componente erotica nel proprio lungometraggio. Anche il fantasy viene preso in considerazione, soprattutto a livello visuale e grafico: qui si apre una parentesi molto importante per l’economia visiva del film, dato che il regista sceglie di non fare ricorso agli effetti speciali ormai tradizionali nel cinema mainstream contemporaneo. I vari espedienti digitali odierni, come il chroma key o il morphing, vengono rigettati in favore di un approccio vintage che affonda a piene mani nel cinema statunitense degli anni ’80 e ’90, in particolare nei generi della fantascienza e del fantasy, ricordando, fra i tanti, film come "Excalibur" di Jon Boorman, "Hook – Capitan Uncino" di Steven Spielberg, "Blade Runner" di Ridley Scott e "Labyrinth – Dove tutto è possibile" di Jim Henson. Il paesaggio extraterrestre viene configurato facendo ampio uso di fumo in scena e di sovraimpressioni, luci al neon e fosforescenti, trucchi sovrabbondanti e oggetti scenografici ricorrenti: in particolare enormi cristalli di quarzo, lampade e lampadine che campeggiano tanto negli elementi naturali, come gli alberi, quanto come ornamento a cavalli e ad esseri umani.
Sguardi maggiormente autoriali, tali da travalicare la dimensione di genere per approdare a una visione personale con cui descrivere se stessi e la realtà che ci circonda, caratterizzano i lungometraggi restanti. Purtroppo non tutti sono all’altezza dell’importanza e della fama del festival: alcune pellicole sono risultate davvero deludenti in quanto incapaci di veicolare un contenuto all’altezza della forma con cui sono stati realizzati. In particolare questo è evidente in “Soul of a Beast” di Lorenz Merz, la cui trama inconsistente sembra sia stata scritta per giustificare, in modo assai flebile, le frequenti sequenze di natura descrittiva, in cui non si racconta nulla ma si descrive vagamente il mondo dei protagonisti o i loro stati d’animo momentanei. Caratterizzate da fotografia e montaggio stupendi, composte da una regia costituita da frammenti e dettagli, oltre che da movimenti di macchina continui con una forte prevalenza di raccordi sul movimento e composti da una fortissima omogeneità cromatica, queste sequenze sono purtroppo sterili esercizi di stile che non comunicano nulla, fuorché la bellezza indiscutibile e la maestria del regista che, in ultima analisi, si limita ad accumulare scene visivamente bellissime e suadenti ma vuote, tanto da sembrare che la trama sia solo un espediente per inserire questi esercizi di stile.
Anche "Medea" di Alexander Zeldovich si caratterizza per la stessa mancanza contenutistica, nonostante il regista tenti ammirevolmente di calare in epoca contemporanea l’omonima tragedia greca. La forma, anche in questo caso, è eccellente, in particolare nello studio della composizione fotografica, caratterizzata da una grande armonia simmetrica e da bilanciamenti formali degni di nota.
Il lungometraggio che lascia maggiormente a desiderare è "The River" (Al Naher) di Ghassan Salhab, la cui trama racconta una coppia si ritrova a vagare per un bosco, immersi nella natura. Il regista fa spesso uso di inquadrature in campi lunghi, a includere i due personaggi in un ambiente più grande di loro in cui si perdono e vagano senza senso, privi di una meta e di un motivo apparente. Una nebbia sembra inseguirli, delle apparizioni li minacciano (dei jet che volano con insistenza sopra di loro e forse sganciano delle bombe, la visione della carcassa in decomposizione di un animale, il ritrovamento del bossolo di un proiettile): vorrebbe suggerire, insieme al sonoro opprimente (composto più da suoni indistinti che da musiche), un senso di oppressione e di morte. Peccato che il tono angosciante di queste scene scompaia immediatamente dopo per essere sostituito dal nulla: dal vagare senza meta delle due persone che si perdono senza motivo e che, altrettanto senza senso, si ritrovano senza dirsi nulla. Il regista ha dichiarato che la sua intenzione è la rappresentazione di una storia d’amore all’interno di un quadro naturalistico più ampio, in cui emerge il senso di angoscia scaturita dalla guerra che incombe sulla nazione dei protagonisti (il film è ambientato in Libano). In realtà è semplicemente un lungometraggio irrisolto e senza una vera idea che lo strutturi alla base.
Di tutt’altro spessore sono le restanti opere presentate al Concorso internazionale del festival. "I giganti" di Bonifacio Angius e "Gerda" di Natalya Kudryashova trattano un mondo desolato popolato da personaggi senza più alcuna speranza, che, nel lungometraggio del regista sardo, vivono un processo di auto-lesionismo come scelta consapevole derivata dall’assenza di stimoli dell’ambiente circostante. “I giganti”, dunque, richiude i protagonisti in un casolare nella campagna sarda, mentre bevono e si drogano giorno e notte fino a morirne, ricordando "La grande abbuffata" di Marco Ferreri per via della bulimia e della voracità finalizzate ad annullarsi come unico modo per evadere dal presente. "Gerda", invece, è una ragazza moscovita che la macchina da presa inquadra immersa in una luca costantemente fredda, persa e disperata come lo sono la protagonista e tutti coloro che gravitano nella sua vita, condannati ad un’esistenza di stenti e di infelicità senza speranza.
Se lo sguardo dei due registi precedenti sceglie di annullarsi nella visione di chi ha scelto di auto-distruggersi o di coloro che non possono emergere dal dolore dell’esistere, "Luzifer" di Peter Brunner e "The Sacred Spirit" (Espìritu sagrado) di Chema Garcia Ibarra, invece, adottano il punto di vista di chi non può (o non vuole) affrontare e vedere la realtà, ovvero dell'"idiota", del minorato mentale che guarda l’esistente con una prospettiva diametralmente diversa dallo spettatore, finendo tanto col confliggere con quest’ultimo, quanto con l’offrirgli una prospettiva vergine. Il primo lungometraggio racconta la storia di una madre e di suo figlio, minorato mentale, che si rifugiano sulle montagne per sfuggire all’alcolismo della prima. L’idillio agreste che la donna riesce a creare, anche grazie a una granitica e a tratti estremista fede in Dio, si rompe quando sopraggiunge un’impresa edilizia con l’intento di costruire una struttura turistica. La macchina da presa segue il peregrinare del figlio fra le montagne, inquadrandolo all’interno di totali di grande bellezza che lo incorniciano nella maestosità del paesaggio alpino, suggerendo la comunione fisica e spirituale del personaggio con l’ambiente in cui vive. L’avvento della modernità (l’impresa di costruzione edilizia) viene raccontata attraverso lo sguardo del figlio, che interpreta quanto accade collegandolo all’avvento del male e del demonio.
"The Sacred Spirit" racconta di José Manuel, vicepresidente dell’associazione ufologica Ovni-Levante, e della scomparsa della sua nipotina. Totalmente convinto della verità della presenza di forze astrali e di poteri magici sulla Terra, scopriamo durante il film che proprio José è responsabile della scomparsa (e della morte) della nipote ancora bambina, avendola consegnata ad un pedofilo che si spaccia per mago e che sostiene di essere in contatto con gli alieni. Magistrale e terribile è la sequenza in cui il protagonista consegna letteralmente l’altra sua nipote nelle mani di uno sconosciuto che si apparta con la bambina in casa di José: la macchina da presa lo filma, in un piano sequenza interminabile, mentre aspetta che l’adulto termini le sue "pratiche magiche in grado di fornire alla bambina un collegamento privilegiato con gli alieni". Lo vediamo aspettare, con lo sguardo perso ed annoiato, mentre siede in una stanza adiacente a quella in cui si trovano la nipote e il "mago": la macchina da presa rimane fissa a riprenderlo mentre si alza e decide di ingannare il tempo pulendo la cucina. Si tratta di una sequenza agghiacciante per lo spettatore, scandita da secondi interminabili che diventano tanto più crudi quanto il regista sceglie di non distaccare lo sguardo dagli occhi persi e totalmente avulsi dal reale del protagonista.
"Juju Stories" di C.J. "Fiery" Obasi, Abba T. Makama, Michael Omonua è un film nigeriano costituito da tre episodi, aventi ad oggetto il ricorso della magia (il juju del titolo, cioè la pratica del vodoo) da parte dei protagonisti. Si tratta di tre racconti di pregevole fattura, fra cui spicca il primo, per densità contenutistica e formale.
Dalla Cina proviene una raffinatissima riflessione riguardante la storia recente del gigante rosso, "A New Old Play" (Jiao ma tang hui) di Qiu Jiongjiong, che racconta le vicende di una compagnia teatrale nata durante la Seconda guerra mondiale e che deve far fronte ai grandi cambiamenti sociali e politici degli anni ad essa successivi. La compagnia teatrale è l’elemento cardine su cui si rispecchiano le immense trasformazioni storiche dei decenni centrali del XX secolo: tanto le vicende politiche quanto il passaggio da una società ancora contadina all'industrializzazione, simboleggiata dalla partenza del "dio del teatro" che prima abitava presso la compagnia. La regia è fortemente statica, privilegiando la fissità della macchina da presa, delle sequenze piuttosto lunghe e, soprattutto, una composizione delle inquadrature di matrice teatrale, tale per cui i personaggi e la scenografia sono disposti a formare dei quadri fissi. Man mano che le vicende politiche si susseguono, il regista inserisce pian piano delle brevi sequenze contraddistinte da uno stile differente, caratterizzato da una luce più fredda, dai personaggi che non sono più disposti a formare quadri fissi e da alcuni movimenti di macchina. Questi inserimenti, che rimangono piccoli tasselli all’interno di una forte omogeneità stilistica di matrice teatrale, vogliono suggerire anche formalmente il cambiamento radicale che la modernità e la rivoluzione comunista ha portato con sé.
Infine, in "Zeros and Ones" Abel Ferrara sceglie di raccontare la contemporaneità più recente calando il racconto nel proprio universo personale fatto di redenzione, peccato e senso di colpa. Il mondo che ci viene presentato è una realtà apocalittica, in cui i personaggi indossano le mascherine e si disinfettano compulsivamente le mani con il gel. Ambientato a Roma, continuando così il proprio sodalizio con l’Italia, le riprese si svolgono soprattutto di notte, rendendo le inquadrature talmente buie che si fatica a decifrare volti e luoghi.