Ospite d'eccezione all'undicesima edizione del Corto Dorico, il regista texano Joshua Oppenheimer è intervenuto via Skype da New York per concedersi a una lunga chiacchierata che ripercorre la realizzazione del dittico sul genocidio comunista in Indonesia
Immaginatevi un epilogo alternativo della Shoah. La fuga di Hitler, per esempio, sopravvissuto all'orrore da egli stesso partorito. Immaginatevi che una quarantina d'anni dopo ve lo ritroviate in splendida forma passeggiare lungo le vie di Berlino. E che il suo sorriso imperituro vi inviti al racconto compiaciuto delle sue terribili storie, riprodotte magistralmente grazie all'aiuto dei suoi adepti, sopravvissuti anch'essi.
Se da un lato il potere dell'immaginazione non può che arrendersi alla realtà, nella fattispecie al tragico finecorsa che il destino ha riservato al Führer, dall'altro si rivela epifanico nell'appurare verità così ripugnanti da divenire grottesche. Come ballare e gioire nel rievocare un omicidio commesso, uno degli innumerevoli orditi dal governo paramilitare indonesiano a cavallo degli anni sessanta, agli ordini del dittatore Suharto (e con l'appoggio degli Stati Uniti), responsabile(i) del genocidio di oltre un milione di "comunisti" innocenti. "Il più grande massacro del ventesimo secolo" secondo l'espressione usata dalla CIA in un rapporto datato 1968.
Se oggi siamo in grado di accostarci da vicino a questo lancinante e sepolto eccidio del passato è per merito del linguaggio cinematografico e del regista texano Joshua Oppenheimer, autore del dittico "The Act of Killing" (2012) e "The Look of Silence" (2014), il primo candidato all'Oscar, il secondo vincitore del Premio Speciale della Giuria all'ultima Mostra di Venezia, entrambi prodotti sotto il nume tutelare di due maestri del cinema documentaristico mondiale, Werner Herzog ed Errol Morris.
Ospite d'eccezione all'undicesima edizione del Corto Dorico (insieme al regista Daniele Ciprì e al compositore Pino Donaggio), Oppenheimer è intervenuto via Skype da New York al termine della proiezione del suo ultimo film, concedendo una lunga chiacchierata che ripercorre la tanto impegnativa quanto lodevole realizzazione dei due lungometraggi. Partendo dal principio: lo Snake River intravisto nell'opera seconda "The Look of Silence", dove per decenni i pesci si sono nutriti dei cadaveri mutilati gettati dalle rive del fiume. Osservando l'ignobile condizione umana di due assassini nel descrivere e nel cercare di mettere in scena con orgoglio le loro raccapriccianti gesta, il regista trova una "duplice spinta": da una parte la doverosa denuncia sull'occultamento del genocidio, dall'altra una dissertazione antropologica sulla natura dell'essere umano, sulla terrificante attitudine nel rendersi incline all'indottrinamento del Male. L'atto di uccidere di Anwar Congo e lo sguardo del silenzio di Adi divengono così un Giano che compendia lo scontro manicheo alla base della Natura primitiva e animalesca del genere umano, scontro che, inesorabile, non può che mettere in evidenza il trionfo di Congo su Adi, in un tripudio di prevaricazione, guerra, sangue, dolore, fino alla (profanazione della) morte.
Congo rappresenta l'inconsapevolezza di questa natura (in)umana, la sua smania, il suo divertimento, il suo egocentrismo nel raccontare bagni di sangue riflette la situazione collettiva del villaggio (addirittura del Paese, come dimostra la devastante sequenza della trasmissione televisiva indonesiana in "The Act of Killing"). Alle svariate domande della platea su come fosse stato possibile addomesticare quel gran numero di assassini, a farli parlare così tanto, Oppenheimer si è limitato a rispondere "nothing". Proprio qua risiede la visione mostruosa, dalla gente del posto, ai gangster, all'intera squadriglia della morte, al movimento Pancasila, fino ai vertici delle istituzioni, tutti non vedevano l'ora di raccontare compiaciuti gli omicidi. "Più che testimoni erano dei veri protagonisti. La decisione di filmarli come loro avrebbero voluto, omaggiando il cinema nei generi del musical, del gangster e del noir, non è stata tanto una mia scelta quanto l'unico modo per poter andare a fondo, per il bene del vero, della verità".
Già, Il vero. Come testimonia lo sguardo impietrito di una donna, figlia di uno dei carnefici, catturato dalla macchina da presa, ignara di tutto e che improvvisamente viene a conoscenza della reale natura del padre, seduto al suo fianco. Per affrontare tutto questo la parola chiave è stata umanità: "ho sempre rispettato gli assassini pur sapendo chi fossero, non li ho mai giudicati, ho cercato di capirli rispettandoli come esseri umani". Solo così Oppenheimer ha potuto entrare dentro la mente di Congo, in un certo senso vincendo la scommessa perché è riuscito a far vacillare nel finale di pellicola uno che ha ammazzato centinaia di gente senza farsene mai un problema. In tal senso il raffronto (e l'influenza) con il cinema herzoghiano è imprescindibile, come quando lo stesso Congo sembra voler comprendere la tragedia vissuta dalle proprie vittime, dopo essersi guardato in scena. Ma Oppenheimer a quel punto non può non intervenire: "quella era la realtà, questa è la finzione".
"Girare The Act of Killing è stato più facile", ha detto il regista. "I veri problemi sono nati dopo la distribuzione in pochissime copie a Giacarta". Per questo motivo quando è tornato in Indonesia per girare "The Look of Silence" la sua vita era davvero a rischio. Come del resto quella del protagonista Adi. Ma era una cosa che doveva fare essenzialmente per due motivi: "sentivo di non essere riuscito a raccontare con la dovuta completezza quello che effettivamente ero riuscito a girare. Ma soprattutto la popolazione che era riuscita a vedere il mio primo lavoro mi pregava di continuare". Se le immagini del primo film sono devastanti, quelle di "The Look of Silence" lo sono anche di più perché a concorrere con il dolore e con la morte c'è l'eroismo dello svelamento del gioco, il farsi aprire ai killer in modo diretto. Oltre a denudare i suoi Stati Uniti, promotori di morte e addestratori di un esercito che elargisce terrore senza porsi domande (come accaduto in America Latina, del resto). In questo senso ecco l'influenza dell'altro produttore, Morris.
"L'intera troupe ha lavorato in incognito e alcuni di loro hanno lasciato il proprio mestiere per paura di ritorsioni. Anche Adi Rukun e la sua famiglia sono stati protetti e allontanati dal loro villaggio al termine delle riprese". Ma la sua figura, sempre in primo piano, non può esimersi dalla potenza rivelatrice delle sue immagini filmate. Che in "The Look of Silence" si chiudono con un insperato anelito di speranza, all'insegna della famiglia e dell'amore verso i propri cari. "Volevo immergere lo spettatore in questo silenzio in cui i sopravvissuti devono trascorrere la loro vita. Ho cercato di narrare le atrocità con un barlume di ottimismo. Mi piace pensare di doverci fermare, fare una pausa e ricordare quelle innumerevoli vite che non torneranno mai fra noi. Voglio che la gente rifletta su questo silenzio che segue l'atrocità".
Chiude il film e con esso l'incontro con il regista la metafora dei "fagiolini volanti" che contengono al loro interno una farfalla che usa lo stesso fagiolo come bozzolo. Allegoria di una popolazione ancora rassegnata all'immobilità ma destinata a dimenarsi, a sprigionarsi, di fronte alla crudezza della verità mostrata (solo dopo le minacce ricevute dal governo durante lo sviluppo del film, Adi ha cominciato a comprendere la paura che vi era nella sua famiglia). Ma tutto questo non può che restare utopia senza un vero intervento delle più alte cariche istituzionali: "non ci può essere una riconciliazione tramite i singoli, è necessario un modello come quello dei comitati sudafricani o il processo di Norimberga. In Indonesia è necessario un processo politico".