Joshua Oppenheimer, in “The End”, in concorso ufficiale al San Sebastian Film Festival, traccia un viaggio cosmogonico. Per la precisione, tratta uno dei temi sociologici chiave soprattutto della cultura giudaico cristiana, quello della famiglia. La pellicola, infatti, racconta della nascita e dell’isolamento che la famiglia - composta da Tilda Switon, la madre, George MacKay, il figlio, Michael Channon, il padre – al centro della storia ha scelto, in una dimensione post-apocalittica, una miniera di sale, dalla struttura rizomatica, a vespaio. L’equilibrio famigliare, però, sarà messo a dura prova dall’arrivo, dal mondo là fuori, di un’estranea, una ragazza (Moses Ingram), di cui si innamorerà il personaggio di MacKay.
Musica maestro
L’involucro musicale rappresenta il controcampo argomentativo di un film tematicamente densissimo. Infatti, al di là del canto imperfetto (e una preoccupante somiglianza con alcune delle composizioni di “La La Land”), l’apparato musicale alleggerisce il carico tematico, in senso ossimorico, ribalta cioè l’emotività agglomerata della prosa, dà dinamicità alla contenutistica monolitica della pellicola, ed è per lo più inutile dal punto di vista diegetico. La scelta di Oppenheimer, dunque, è stata quella di miscelare all’ambientazione apocalittica, claustrofobica, statica della storia, l’energia delle sequenze musical, ricche di virtuosismi, in grado di restituire e amplificare uno sguardo fantasy se vogliamo, rarefatto, ma, appunto, sempre in contrasto con il tono cupo, malinconico, drammatico della vicenda. Passiamo, allora, dalle prove canore corali, a rincorse per gli ambienti iper-estetici della lussuosissima casa nella miniera, fino ai tête à tête da dramma coniugale, tra MacKay e la ragazza, e tra i genitori. Questi ultimi, in particolare, sono spesso incastrati in un gioco di specchi e riflessi, che operano come strumento metaforico riguardo il turning point narrativo di cui si accennava: l’arrivo della ragazza.
L’equilibro, di conseguenza, si spezza e ha una conseguenza duplice: a livello narrativo, rompe la morfologia del racconto, seguendo lo schema di Propp, dall’altro, a livello metanarrativo, tematizza (antichissimo, delle commedie latine) l’estraneo. Oppenheimer, insomma, ribalta in un certo senso il mito platonico, la caverna (alias la miniera) non è più l’interno, ma l’esterno, e la ragazza rappresenta l’alius nel gruppo sociologicamente chiuso per eccellenza, la famiglia. In questo senso, ancora, il tono musicale apre a una stratificazione emozionale insperata, in cui la vita dei personaggi è sospesa, come se stoppassero il loro sviluppo estensionale, e procedessero solo a livello intensionale, cioè non più nello spazio e nel tempo, ma per possibilità. “The End”, d’altronde, è il miglior riassunto di una dimensione alterata, un mondo possibile, che però porta con sé le scorie di quello precedente. È un’eterotopia, il luogo foucaultiano connesso agli altri, in cui però i normali rapporti di forza e interconnessione vengono meno.
Schizofrenia
Una delle caratteristiche forse più interessanti di “The End” è nella discrasia tra la messa in scena della fenomenologia famigliare e un parlato talvolta tangenziale, la cifra, cioè, dell’eloquio schizofrenico privo di coerenza. È, infatti, evidente il linguaggio apparentemente barocco, iper-erudito, che, nel dialogo, tra battuta e risposta, diventa straniante, e incastra la vicenda in una proporzione fiabesca, in cui il tempo non gioca un ruolo (alla Peter Pan, con cui condivide il tono drammatico). Si tratta forse della miglior intuizione del regista, quella di procedere per opposti, offrire sempre una controparte, l’immagine e il suo riflesso, la dinamicità del musical e la staticità del dolore, della paura dell’estraneo, dei sensi di colpa che la famiglia tiene nascosti. Oppenheimer ha confezionato un film ambiziosissimo, forse il più interessante del festival, che, come il tubo d’aria nella miniera, si riempie a ritmo cadenzato, e cresce d’intensità, ma forse, talvolta, non riesce a sostenerne il peso. È lo stesso problema che denuncia MacKay: quando passi tanto tempo senza parlare con nessuno, poi è difficile dire ciao per primo. Ecco, “The End” è una pellicola tanto particolare, insolita, quanto però complessa da assimilare.
cast:
Tilda Swinton, George MacKay, Moses Ingram, Michael Shannon
regia:
Joshua Oppenheimer
durata:
148'
produzione:
Final Cut for Real, Wild Atlantic Pictures, The Match Factory, Dorje Film, Moonspun Films, Anagram S
sceneggiatura:
Joshua Oppenheimer, Rasmus Heisterberg
fotografia:
Mikhail Krichman
scenografie:
Jette Lehmann
montaggio:
Niels Pagh Andersen
costumi:
Frauke Firl
musiche:
Joshua Schmidt, Marius de Vries