Classe 1935, William Friedkin è stato uno dei protagonisti della Nuova Hollywood negli anni 70. Nato a Chicago da una famiglia di origini ucraine, la sua infanzia e giovinezza le trascorre tra disagi economici che lo costringono ad abbandonare gli studi e farsi assumere come apprendista presso una televisione locale. Come altri colleghi (ad esempio, Sydney Pollack e Sam Peckinpah), il regista americano compie una lunga e faticosa gavetta, dirigendo documentari che ne influenzano lo stile.
Autore delle due pietre miliari “Il braccio violento della legge” (1971) e “L’esorcista” (1973), rinnova i generi thriller e horror e crea un cinema metropolitano dove gli spazi urbani tratteggiano ambienti naturalistici, in cui i confini tra Bene e Male si sovrappongono e si confondono in una zona d’ombra che vede la violenza e la sopraffazione fisica e morale un esercizio quotidiano degli individui.
Dopo il successo di critica e pubblico di quella stagione, negli anni seguenti è estromesso dagli studios che riprendono il potere a Hollywood. Dopo l’originale e controverso “Cruising” (1980) con Al Pacino, precursore di film sui serial killer, William Friedkin ritorna con “Vivere e morire a Los Angeles” al genere a lui più congeniale: con una produzione indipendente e un cast con attori poco noti all’epoca, rielabora i topoi del thriller e continua l’analisi della società americana.
Il denaro come divinità distruttrice
Il tema esplicito di “Vivere e morire a Los Angeles” è il potere dei soldi come elemento generante i destini degli uomini e, di conseguenza, l’intera società in cui agiscono.
Dopo un lungo incipit, in cui vediamo in azione l’agente Chance del Secret Service, che si sta occupando della sicurezza del Presidente in visita nella città, i titoli di testa sono un montaggio sincopato di inquadrature dove si scorge il passaggio di banconote da un indivduo a un altro.
Il Secret Service statunitense è un’agenzia federale le cui uniche finalità sono la protezione del Presidente degli Stati Uniti e dei membri del governo federale e la lotta contro lo spaccio di denaro falso. L’agente Richard Chance (William Petersen) si mette alla caccia del falsario e artista Eric Masters (Willem Dafoe) uno dei più bravi e spietati dell’area metropolitana. La spinta di Chance è data soprattutto dal fatto che Masters, insieme al suo braccio destro, abbia assassinato l'anziano collega, con cui faceva coppia, a pochi giorni dalla pensione.
I soldi sono inquadrati in dettaglio da Friedkin più volte durante la pellicola, in modo ossessivo, permanenti e permeanti nella società contemporanea. Mai come in questa occasione il dollaro è assunto come divinità distruttrice e falsificatrice che, come un virus, provoca la morte di chiunque venga in contatto con esso. Oltre al vecchio collega di Chance, nel susseguirsi della narrazione Friedkin inanella, in modo ritmato, una serie di omicidi: un avvocato che ha ingannato Masters; un agente del FBI sotto copertura, a cui Chance, insieme al nuovo compagno John Vukovich (John Pankow), sottrae una somma in modo illecito; lo stesso Chance e il braccio destro di Masters nel prefinale, nel momento dell’acquisto dei soldi falsi durante il tentativo di arresto; e infine, Masters ucciso da Vukovich nell’autodafé conclusivo. Pure Vukovich in un certo qual modo “muore”: unico soggetto con un’etica, che si pone dubbi sulla correttezza delle azioni in cui è coinvolto. Sarà, alla fine, il solo sopravvissuto sulla scena, ma come corpo, perché si assiste alla mutazione della sua psicologia e la vecchia natura lascerà il posto a una nuova, priva di scrupoli come quella degli altri personaggi.
Gli uomini in “Vivere e morire a Los Angeles” sono sempre uccisi con colpi in faccia, distruggendone l’identità, coperti dal rosso vivido del sangue. Lo stesso colore che Masters usa come base per produrre i dollari falsi, in una continuità tra produttività e morte, come se ogni banconota contraffatta fosse una pallottola.
In questo senso, un’altra sequenza simbolo è la messa in scena del lavoro di creazione dei dollari falsi. In un montaggio composto da brevi inquadrature su primi piani di Masters, i dettagli delle macchine da stampa e della miscela dei colori e i particolari delle mani del protagonista, Friedkin raffigura in modo scientifico il lavoro del falsario come un artigiano-artista. A mostrare una società che si fonda su un’economia corrotta e gonfiata, che non si regge su una ricchezza reale, ma sulla surroga di essa. Il dollaro si erge, dunque, a metafora della malattia della Reaganomics, la politica economica del presidente Ronald Reagan, imperante negli anni 80, in cui i soldi diventano prova di condanna per l’intera società consumistica americana.
Tra falsificazioni e duplicazioni
“Vivere e morire a Los Angeles” però parla di altro in modo più profondo. Il denaro, quello vero e quello falso - e il suo uso smodato – è una derivazione dell’adulterazione dei personaggi.
Nessuno in “Vivere e morire a Los Angeles” è innocente: ognuno, per perseguire i propri scopi, è disposto a tradire sentimenti, giustizia e morale. Chance non ha scrupoli a sfruttare l’informatrice Ruth Lanier (Darlanne Fluegel), usando il sesso come leva di possesso e minacciandola di continuo di portarla in prigione, così come a compiere dei reati (la rapina al compratore di diamanti, che si rivela un agente sotto copertura) e a plagiare Vukovich. Non esiste confine tra Bene e Male perché non ci sono buoni o cattivi, ma tutti agiscono per sopraffare l’altro, in una gara al più forte dove i sentimenti sono sostituiti dalla ricerca adrenalinica dell’emozione estrema fine a se stessa. Il film si trasforma da subito in una caccia continua, dove il ruolo di cacciatore e preda tra Chance e Masters è intercambiabile, in una lotta senza sosta per il predominio del singolo. Chance appare un “falso” agente, così come Masters è un “falso” pittore; entrambi sono spietati e sanguinari animali che combattono per il controllo del territorio metropolitano.
Alla profonda distorsione dell'etica individuale – e per sineddoche a quella sociale, con una visione nichilista che Friedkin ha dei rapporti umani – fa da contraltare la contraffazione della realtà nella messa in scena della sua duplicazione.
Il termine “gemello” usato dagli agenti federali, riferito al proprio collega, è determinante nella definizione della geminazione dell’individuo. Come in una partenogenesi, il male si moltiplica, espresso dalla funzione scopica dello sguardo. In questo senso, Masters è più volte inquadrato con degli specchi alle spalle – mentre, ad esempio, è nella sua villa insieme all’amante Bianca Torres (Debra Feuer) – o attraverso il vetro di finestre, in cui abbiamo un raddoppio della figura in un doppelgänger insito in se stesso. Così come, allo stesso tempo, Chance e Masters lo sono uno dell’altro a prefigurare il presagio di morte di cui saranno entrambi vittime. Perfino Chance è ripreso attraverso i vetri delle finestre o, in particolare, quando va a trovare Ruth nel club dove lavora come cassiera. In questa scena, Chance e Ruth sono inquadrati in modo tale che si parlano attraverso il gabbiotto dove si trova la donna, circondata da una vetrata. Abbiamo così sia un raddoppio di Chance riflesso, sia una duplice gabbia in cui i due sono rinchiusi: Ruth fisicamente, mentre Chance risulta imprigionato metafisicamente, in preda alle sue ossessioni che porta ovunque con sé.
Un altro esempio del sistema scopico dei rapporti individuali lo abbiamo quando Masters riprende gli incontri sessuali tra lei e Bianca attraverso una telecamera. Si ha il suo raddoppio, attraverso il rapporto lesbico con un'amica, promosso da Masters che poi vede la ripresa attraverso il televisore. Si compie, in questo modo, una mise en abyme visiva tra lo sguardo di Friedkin e quello di Masters e il ruolo del regista si trasforma a sua volta in quello di un falsario della realtà.
Del resto, Friedkin ha avviato la sua carriera come documentarista e se le sue pellicole di fiction hanno una messa in scena realistica, lo stesso regista ha più volte affermato che la realtà non può essere ripresa in quanto tale perché già lo sguardo della macchina da presa compie una limitazione data dall’inquadratura, in una sorta di mistificazione di quello che si sta osservando. Così in questa foresta segnica, è emblematica la mutazione di Vukovich che – visivamente – prende il posto di Chance nel finale di “Vivere e morire a Los Angeles” in una transustanziazione morale e fisica negli ultimi 13’ della pellicola.
Dopo lo scontro a fuoco che ha luogo al 103’ in cui Chance muore, Vukovich insegue Masters fino a una rimessa dove nasconde il denaro e le sue opere. Qui, il falsario sta dando fuoco a tutto e in una colluttazione l’agente sopprime Masters come avrebbe voluto Chance. Subito dopo vediamo Vukovich che si veste nello stesso modo del collega defunto, guida la medesima auto, si reca presso la casa di Ruth e prende il suo posto nel rapporto con lei, dicendole chiaramente che adesso deve rispondere a lui. Le ultime inquadrature sono un primissimo piano su Vukovich e subito dopo un altro su Chance – il suo fantasma – in una esplicita messa in linea tra i due sguardi che sentenziano la sostituzione de facto di Vukovich con Chance, ovvero il raddoppio di quest’ultimo, dove il primo diventa la copia del secondo, in un parallelismo tra denaro vero e quello contraffatto che raffigura una riproduzione di senso della superficie della visione, portando con sé l’assenza di contenuti esistenziali.
Geometrie metropolitane
Friedkin compie un’operazione estetica di ampia composizione nella messa in scena e messa in quadro in “Vivere e morire a Los Angeles”. La cifra stilistica del regista è formalizzata fin dalla prima sequenza. Il dettaglio delle bandiere che sventolano sull’auto presidenziale e il corteo ripreso dall’alto che arriva davanti a un albergo, danno immediatamente il senso di una ricerca geometrica scarna ed essenziale in cui i protagonisti si muoveranno per lo spazio filmico.
Il regista americano effettua uno scarto visivo di grande efficacia rispetto al cinema degli anni 80, e del genere thriller in particolare, abbandonando gli effetti glamour delle scenografie urbane imperanti, che mettono in risalto la ricchezza e la bellezza, la fotografia con effetti flou e colori pastello, l’armonia superficiale delle inquadrature in totale e delle figure intere.
L’autore di Chicago sceglie una Los Angeles poco vista nel cinema dell’epoca, riprendendo le periferie portuali irte di gru, le lunghe e intasate freeway che circondano la metropoli, i quartieri spogli e fatiscenti in cui si nota l’assenza dell’umanità. Non c’è Beverly Hills, non ci sono i negozi di Rodeo Drive, non ci sono le ville di Mulholland Drive, ma le case fatiscenti della prima collina della città.
Gli esterni sono sempre ripresi in campo lungo e inquadrati dall’alto in cui le linee di fuga compongono la scena, dando il senso di infinitezza. Gli individui si vedono appena, schiacciati dallo e nello spazio, soli e isolati, come manichini senza fili che corrono disperati alla ricerca del dio-dollaro, di chi lo possiede – e ne è posseduto – e di chi lo produce.
Friedkin contrasta la superficialità spirituale dei personaggi con una continua profondità di campo negli interni, siano essi il bar dove discutono Chance e Vukovich sull’andamento delle indagini, oppure l’aeroporto dove i due agenti catturano un corriere di Masters (un John Turturro debuttante al cinema), dove l’inquadratura sugli attori è talmente profonda da racchiudere l’intero mondo intorno a loro. La villa di Masters ha un’estetica di essenziale eleganza tra scale che uniscono le varie stanze, dando un senso di verticalità in un effetto geometrico che ricorda i disegni di Maurits Cornelis Escher, evidenziando il labirinto senza fine in un lemnisco sensoriale che correla i protagonisti della narrazione e li fonde tra loro.
Del resto, questa associazione visiva è presentata fin dall’incipit.
Infatti, nelle prime sequenze, prima dei titoli di testa, quando Chance sventa un attentato contro il Presidente, sale sul tetto dell’albergo e punta la pistola contro il terrorista. È inquadrato il poliziotto, ma in primo piano abbiamo la canna dell’arma ripresa dalla soggettiva dell’attentatore. La medesima costruzione dell’inquadratura è ripetuta quando Masters ammazza l’avvocato Waxman nel suo studio perché lo ha truffato e poi quando Vukovich elimina nel finale Masters: sempre in primo piano la canna dell’arma in soggettiva della vittima, come a mostrare visivamente la sovrapposizione psicologica dei tre protagonisti in un, appunto, lemnisco ottico.
Friedkin utilizza poi delle lunghe carrellate – laterali e a seguire – per riprendere gli inseguimenti, come quella in aeroporto, quando Chance cattura il corriere di Masters. La ripresa non è solo un virtuosismo tecnico, ma rafforza la cinestetica dell’azione e il movimento della macchina da presa raddoppia la profondità di campo delle inquadrature fisse, producendo le geometrie binarie in cui agiscono i personaggi e rendendo tridimensionale la complessità scopica.
Alla fotografia dai colori saturi e una luce nitida è contrapposta una scenografia urbana sporca, industriale, liminare in cui si muovono gli uomini e le donne al ritmo di una colonna sonora con un tema composto dal gruppo inglese Wang Chung, creando, con la loro musica new wave, un’impalcatura sonora che innerva e potenzia le sequenze di azione.
Unica eccezione – in cui il tappeto sonoro è fatto dello stridere delle gomme, lo schianto delle lamiere delle auto e il fischio delle pallottole – l’abbiamo nella lunga sequenza dell’inseguimento in auto sulla tangenziale di Los Angeles dove fuggono Chance e Vukovich dopo aver rapinato il corriere di diamanti e infiltrato del FBI.
Il segmento comincia al 76’ con Chance che cattura il corriere e lo porta nell’auto guidata da Vukovich. Sono sotto un cavalcavia e, mentre lo spogliano alla ricerca del denaro, l’uomo viene ucciso accidentalmente dai colleghi a copertura che sparano contro i due agenti del Secret Service. Inizia il tallonamento in una sequenza parossistica della durata di sette minuti, dall’81’ all’88’, in cui Friedkin non si limita ad autocitare l’altra famosa sequenza di “Il braccio violento della legge”, ma la rielabora. Questa parte è emblematica della confusione etica: una sparatoria che esplode tra due agenzie federali, ognuna all’oscuro dell’altra, e con scopi diversi. Anche qui abbiamo una duplicazione e una falsificazione. La prima è lo scontro a fuoco che si verifica tra uomini di legge che si comportano come delinquenti. La seconda è espressa dagli agenti del FBI che svolgono un’operazione sotto copertura e da Chance e Vukovich che compiono una rapina per avere i fondi per proseguire nella loro indagine. Ciò è rafforzato dalla corsa automobilistica contromano che, metaforicamente, rispecchia il flusso contrario alla legalità, diffondendo caos e morte intorno a loro e dove Chance coglie solo l’aspetto adrenalinico della situazione, quello a livello dell’amigdala cioè del cervello primitivo. La metropoli appare così uno scenario razionale dove si muovono irrazionalmente i personaggi spinti solo da istinti basilari e ferini.
A distanza di decenni, l’opera di Friedkin si rivela un thriller moderno che scardina l’estetica degli anni 80 e va controcorrente per i temi trattati e i personaggi raffigurati. Tardo capolavoro di un autore che ha avuto il coraggio di essere contro il sistema e di perseguire un’idea di cinema in cui la finzione della messa in scena interpreta in modo personale la realtà, mettendo a nudo le radici nichiliste della società contemporanea.
cast:
William Petersen, Willem Dafoe, John Pankow, Debra Feuer, John Turturro, Darlanne Fluegel, Dean Stockwell
regia:
William Friedkin
titolo originale:
To Live and Die in L. A.
distribuzione:
Metro Goldwyn Mayer-United Artists
durata:
116'
produzione:
New Century Productions, Slm
sceneggiatura:
William Friedkin, Gerald Petievich
fotografia:
Robby Muller
scenografie:
Lilly Kilvert
montaggio:
Bud Smith
costumi:
Linda Bass
musiche:
Wang Chung