È con abituale vezzo iconoclasta che Alain Guiraudie ha intitolato il suo settimo lungometraggio a un sostantivo preso a prestito dal lessico Cristiano. "Miséricorde" è, infatti, denominata in originale questa operetta, che mescola Charles Perrault a Claude Chabrol e si propone di riscrivere, come una moralité del Settecento, le coordinate di un nuovo spazio etico (e si sorvoli sul tradimento dei distributori, che gli hanno preferito il prosaico "L'uomo nel bosco", ammiccamento un po' vigliacco al precedente successo cannense dell’autore con "Lo sconosciuto del lago").
Iconoclasta, si diceva, fin dal titolo, l'autore lo è sempre stato, sebbene l'insulto alla norma sia sempre a tal punto garbato nel cinema di Guiraudie, a tal punto consustanziale al nitore delle immagini in cui esso si produce da voltare l'oltraggio in un gesto gentile, di garbata naturalezza.
L'ambiguità
Il movimento che ci immette nel film è una costola del precedente "Rester Vertical" (2016), uno sguardo in soggettiva dall'interno di una vettura che corre su una stradicciola ricurva e apre a un paesaggio agreste. A differenza di quanto avveniva ne "Lo sconosciuto del lago" (2013), ove l'immagine di un parcheggio scandiva, come il piegarsi e dispiegarsi di un sipario, il corso di giornate interamente consumate nell'astrazione di quel non luogo disteso sulle sponde di uno specchio d'acqua, in "Miséricorde" l’astrazione è una meta verso cui il protagonista si dirige - e noi con lui - inerpicandosi su stradine montane che disegnano in incipit le coordinate di una geografia in lento avvicinamento. Geografia il cui approdo è infine la bottega del fornaio locale, chiusa a lutto. Jérémie, vale a dire l'occhio in finta soggettiva che ha accompagnato il nostro viaggio sui titoli di testa fino al villaggio di Saint-Martial - un pugno di abitanti e bocche prevedibilmente dedite al chiacchiericcio - è un giovane di Tolosa, venuto per partecipare al funerale del panettiere, che, durante l'adolescenza, gli aveva insegnato il lavoro. In un breve colloquio tra il ragazzo e la vedova intendiamo che la relazione col defunto era, forse, più complessa di quanto pubblicamente noto. Ci coglie l'impressione di avvicinarci a un nodo essenziale del racconto e vorremmo saperne di più, quando uno stacco di montaggio chiude di colpo il confronto tra i due. Non sarà l'ultima volta, in questo film imprendibile e tutto inteso a seminare con cura tracce di racconti ulteriori, di storie possibili, sfiorate, senza mai esser dette. Da che dipende il comportamento ambiguo del figlio del fornaio, che sembra al contempo cercare e respingere Jérémie? E da cosa l’eccessiva sollecitudine della vedova? Le ipotesi disegnano nella nostra immaginazione nuove traiettorie per la storia, mentre Jérémie, che si lascia convincere a rimanere, ospite della donna contro il volere del figlio, passeggia per i boschi in cerca di funghi, cogliendo frammenti di corpi e parole in mezzo al verde e al castano delle foglie ottobrine.
Il desiderio
Intorno a queste figure Guiraudie costruisce un racconto di semplicità esemplare, che lavora come un giallo all’inverso, in cui siamo a conoscenza di tutto quel che accade, eppure sempre abbiamo la sensazione che il senso di ciò che vediamo ci sfugga tra le mani. Vi è, ad esempio, un omicidio. Conosciamo il colpevole, lo abbiamo osservato mentre si macchiava del delitto; eppure richiesti di dirne le ragioni non potremmo che abbozzare discorsi a mezzo, perdendoci nella confusione di relazioni umane impossibili da specificare.
Si potrebbe, allora, pensare che una costruzione così insistentemente reticente sia null’altro che un costume autoriale, un modo per addobbare i personaggi di complessità inesistenti, ma si incorrerebbe in una conclusione grossolana. La nostra impressione è che, anzi, mantenendosi in perenne sospensione tra i fatti e la loro proiezione onirica, Guiraudie sia riuscito a toccare i nervi più profondi del racconto che ha imbastito per i suoi protagonisti. Tutto, in questo film, sembra essere già dentro le cose. Il thriller stesso è tutt’altro che una svolta peregrina ficcata a forza dall’esterno, ma emerge spontaneamente dall’agitarsi dei corpi, sedotti da quella figura di disequilibrio che è Jérémie, di cui non è inutile sottolineare la filiazione con l'elusivo ospite del "Teorema" pasoliniano. E così ogni cosa, anche l’omicidio, in questa operetta di inaudita semplicità, sembra null’altro che una emanazione naturale e giusta. Cinema in forma di apologo, che, nell’audacia con cui sfida le cose a mostrarsi senza infingimenti, nel rigore con cui lascia che i fatti si sommino naturalmente nella tesi da provare, nella pervicacia con cui insegue i copri e ne tesse l’idillio si rivela altresì memore di certo gusto rosselliniano. Come l’autore di "Europa '51", Guiraudie pratica un cinema di osservazione, in cui imbastisce i fatti preliminari per poi indugiare sulle reazioni che ad essi seguono, con la differenza che là lo sguardo veicolava una scoperta del mondo che si dava nella forma del campo/controcampo, mentre qui l’occhio celebra (ed insegue) le dinamiche del desiderio.
L'astrazione
Ne "Lo sconosciuto del lago" l’unità di luogo immetteva nel racconto una astrazione, che agevolava lo spettatore nel contatto con una realtà dichiaratamente "altra", chiusa com’era tra le quinte del boschetto e del parcheggio. In "Miséricorde" (che recupera l'esperienza del più recente "L'innamorato, l'arabo e la passeggiatrice") siamo, invece, a metà tra il luogo incantato e il dato reale, con la foresta a inscenare senza infingimenti quello spazio di liberazione delle pulsioni, ove l’eccitazione dell’umano prende forma in una gamma espressiva che tocca gli estremi del desiderio e della violenza. Una dimensione cui, certo, partecipava il microcosmo del lago - anch’esso con il contorno di una vegetazione a fare da paravento (o, forse, da stimolo?) a un’assassinio - con la differenza che da là mai uscivamo, mentre qui dal bosco al paese è un continuo viavai di fungaioli e parroci e gendarmi. Se, dunque, ne "Lo sconosciuto del lago" il cinema di Guiraudie fingeva un realismo di superficie, che in breve l’eccesso di stile andava piegando nella direzione di un esplicito artificio, in "Miséricorde" il confronto di Eros e Thanatos - che, nella visione del regista e parafrasando Gesualdo Bufalino, mentre lottano si stringono segretamente la mano -, pur abitando principalmente la dimensione fiabesca del bosco, non rinuncia a ramificarsi nella scenografia naturalistica di stradicciole notturne, sale da pranzo, cucine e soprattutto camere da letto. Spazi che a dispetto di un’aria e un mobilio assai comuni si fanno d’un tratto catalizzatori del bizzarro, quando Jérémie - incredulo quanto noi e, dunque, estraneo al patto di astrazione - li scopre invasi di persone che non dovrebbero essere lì, a partire dal gendarme, che, seduto sul letto in piena notte cerca di estorcergli una confessione nel dormiveglia.
Il grottesco
Al netto della serietà con cui inscena le trame del desiderio, "Miséricorde" è altresì un film infuso di toni da commedia nera, ma più che accentuare le deviazioni grottesche dell’intreccio, sembra intento a cogliere con naturalezza i sintomi della quotidianità cui aderisce. Nell’universo di Guiraudie che si pasteggi coi funghi concimati da un corpo in disfacimento non è fatto più inconsueto di un ateo che confessi un parroco - su richiesta, si badi, del prelato, il quale d’altro canto, come il giovane curato che ne "Le due zittelle" di Landolfi arringava in favore della scimmia sbafatasi un piatto di Ostie consacrate, si premura di dichiarare apertamente le sue posizioni ereticali sul delitto e il castigo in quella che è la scena più esplicita di questa operetta morale. E se le vicissitudini di un cadavere sepolto, dissepolto e ri-sepolto richiamano alla memoria quello che è il film più inglese di Alfred Hitchcock, vale a dire "La congiura degli innocenti", l’implacabile coppia di poliziotti si innesta in un solco tra le stravaganze di Bruno Dumont e una invenzione à la Chabrol, incarnando l'ortodossia del senso comune e della morale tradizionale.
Aderendo al principio di Flaubert, secondo cui il maggior esito nell’arte non consiste nel far ridere o piangere, ma nel saper agire come fa la natura, Guiraudie rifiuta l’enfasi e si mette in ascolto del battito sotterraneo che anima le cose del mondo. Lo spia, per così dire, con una macchina da presa ad altezza d’uomo, per scrutare i corpi, per desiderarli e farli desiderare, con quella casta impudicizia d’adolescente che da sempre informa il suo cinema.
cast:
Félix Kysyl, Catherine Frot, Jacques Develay, Jean-Baptiste Durand, David Ayala, Sébastien Flagain, Tatiana Spivakova, Salomé Lopes
regia:
Alain Guiraudie
titolo originale:
Miséricorde
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
102'
produzione:
CG Cinéma, Scala Films, Arte France Cinéma
sceneggiatura:
Alain Guiraudie
fotografia:
Claire Mathon
scenografie:
Emmanuelle Duplay
montaggio:
Jean-Christophe Hym
costumi:
Khadija Zeggai