Perché Marina è
una donna fantastica? Cos'è che la rende unica, inimitabile, meravigliosa? Forse, come suggerisce l'epiteto che le affibbia direttamente Sonia, sfogando così il dolore per la morte del marito, è la costituzione
chimerica a renderla tale: il suo corpo composito, multiforme, che condensa in sé una natura maschile e una femminile. Eppure, Marina è molto più che "pura perversione", molto più che un animale mitologico disprezzato e disprezzabile. Ella è, al contrario, quasi un ideale, la personificazione di uno spirito vivo e mai domo, in costante ricerca di una stabilità che sia insieme fisica e mentale. Un fiume in piena, una cascata in divenire. Marina è una creatura
fantastica per la sua energia, per quel carisma che porta le cicatrici di un'esistenza densa di errori, vicissitudini e trionfi personali; per la capacità che ha acquisito - e dovuto acquisire - di andare controcorrente, controvento.
Dopo il successo internazionale di "
Gloria", Sebastián Lelio torna alla regia con un dramma intimo incentrato sulla figura di una
transgender (Marina, appunto), la quale deve fronteggiare la morte improvvisa del compagno. Un dramma intimo caratterizzato, però, da una messinscena continuamente alla ricerca della variazione, dello scarto dalla norma, dell'antinaturalismo, quasi a corrispondere - o imitare - la complicata situazione della protagonista. Ecco allora come, all'interno di una sauna, vediamo l'ambiente cambiare colore (prima rosso, poi giallo, blu e infine viola); come, tra le luci stroboscopiche di una discoteca, assistiamo a un ballo immaginario di Marina, la quale spicca poi il volo arrivando fino al soffitto; come, in prossimità dell'epilogo, ritroviamo citazioni, più o meno velate, agli incubi visionari del
David Lynch di "
Mulholland Drive".
Il pregio maggiore della pellicola risiede però, essenzialmente, nella gestione drammatica del racconto, nella dilatazione di sguardi, dialoghi, rabbia e delusioni. Se, come abbiamo potuto già spiegare, l'evidente ricerca estetica risulta coerente con il tema della narrazione, allo stesso modo l'abilità di Lelio permette di donare sincera potenza anche alle scene meno convincenti. Dove, ad esempio, troviamo l'abusato espediente del rapimento violento ai danni della protagonista, il regista fugge le trappole dei
cliché con una ripresa - lunga, insistita e sgradevole - sul volto della vittima deformato a causa del nastro adesivo applicato. E ancora: in un semplicissimo dialogo, di cui già accennato inizialmente, tra Marina e la (ex-)moglie del compagno deceduto da poco, Lelio, facendo unicamente ricorso a un campo-controcampo, a una direzione impeccabile degli attori e, soprattutto, a un montaggio teso ad attribuire maggior peso specifico alle reticenze o leggere alterazioni del viso più che alle parole in sé, riesce a fornire inaudita complessità all'intera sequenza.
Non che tutto funzioni mirabilmente, in "Una donna fantastica". L'impiego di numerose scene oniriche (come il fantasma dell'amante, che più volte fa capolino all'interno dell'opera) appare spesso piuttosto superfluo, così come si poteva tranquillamente fare a meno di qualche facile e immediato simbolismo (uno su tutti lo specchio, rappresentante la scissione - interiore ed esteriore - del personaggio principale e che, specie sul finale, viene utilizzato in maniera veramente eccessiva e didascalica). L'opera dell'autore cileno regala i momenti migliori quando, per esplicitare i turbamenti di Marina, utilizza la semplice ambiguità della narrazione: paradigmatica è la sequenza dove la stessa protagonista, una volta entrata nella parte riservata ai maschi di una sauna, rimuove l'asciugamano superiore, atto a coprire il seno, e si aggira nell'edificio tra la perplessità generale dei clienti, i quali non riescono a riconoscere il reale sesso della donna.
Dove Gloria, nell'epilogo del film precedente di Lelio, trovava una personale liberazione sulle note del brano omonimo di Umberto Tozzi, allo stesso modo Marina, in questa ultima fatica, conclude la sua rielaborazione del lutto - il quale diventa anche l'occasione per la definizione del proprio corpo e della propria indipendenza - attraverso una
performance musicale, che la vede coinvolta in prima persona quale cantante dell'"Ombra mai fu" di Georg Friedrich Händel. Ancora una volta, dunque, la catarsi finale avviene con un indugiare della macchina da presa sulla donna protagonista, che riesce, forse anche solo per un attimo, a dimenticare le difficoltà cui è stata sottoposta: come se la musica potesse rimediare al distacco che loro, donne in preda a un conflitto insieme esistenziale e sentimentale, percepiscono rispetto a ciò che le circonda. Come se riuscissero, così, a trovare un proprio spazio, una propria stabilità, una personale armonia nel caos del mondo contemporaneo.