Mentre le luci si abbassano e gli ultimi lembi meccanici dei robottoni di Del Toro lasciano lo schermo, nel buio che precede le guglie del castello di zio Walt lo sgranocchio rituale dei pop corn pare farsi più intenso. E' un suono naturale, un sottofondo diffuso e continuo, che mette addosso la consapevole distensione di chi si abbandona al puro intrattenimento, come al piacere di una brezza estiva. Durante
l'ultimo Refn nessuno masticava dolciumi. Del resto, anche i film d'evasione hanno il loro galateo; immancabili il gorgoglio della bibita che risale la cannuccia e le sguaiate chiose esplicative degli spettatori più disinvolti, ma, soprattutto, immancabile è l'incipit rocambolesco che proietti gli stomaci del pubblico in una corsa sfrenata sulle montagne russe.
Non si può negare che le regole del gioco siano ben note a Verbinski, già autore della (fin troppo) duratura
saga piratesca nei caraibi, con cui si ponevano le basi di un'estetica dell'artificio esibito, che avrebbe condotto al proliferare di un cinema di plastica, inerte e fasullo quanto le chiassose attrazioni di un qualsiasi parco a tema. Accettati i presupposti, null'altro si può chiedere a questo cinema di plastilina se non un primitivo intrattenimento di pancia, che assecondi con massicce dosi di avventura, caratteri stereotipati ed ironia da drive-in quella regressione al gusto infantile che ci coglie quando i vagoni dell'ottovolante inforcano un giro della morte. E se è vero che la saga di Verbisnki, col procedere delle avventure, ha perso fascino per le troppe frivolezze di una scrittura inadeguata, il primo capitolo ha continuato a mantenere una certa attrattiva; sufficiente, comunque, per sperare che il trasferimento in blocco del cast (compresi produttore e sceneggiatori, oltre al regista e Depp) dalle isole caraibiche alla polvere del vecchio west avrebbe prodotto un nuovo, appassionante giocattolo da godere nell'immediato con la noncurante irruenza dei bambini. Peccato che il risultato non rispetti le premesse.
Non tutto, intendiamoci, è da buttare in questo roboante parco giochi, che mescola cowboy solitari, indiani straniti, solerti vedove in pericolo, banditi raggrinziti dalla calura, affaristi barbuti e senza scrupoli, lande deserte, ferrovie in costruzione e frontiere da epopea. C'è un bel film intrappolato negli estenuanti 149 minuti di "The Lone Ranger", ma troppo di frequente si fatica a scorgerlo e l'intero progetto appare allo stato grezzo, come un blocco di marmo cui rimanga ancora da "levare il soverchio".
Riletto da Verbinski, il mito del Cavaliere solitario, le cui avventure radiofoniche negli anni Trenta avevano acceso le fantasie dei bambini per poi approdare - con scarso successo - al cinema in due dimenticabili versioni, cerca un aggiornamento agli Usa del XXI secolo, interrogandosi sul valore della giustizia in una società asservita alle logiche di un famelico capitalismo, disposto a fagocitare cose e persone in nome del Potere. Che l'intento sia riuscito o meno (propenderemmo per il no, dato che lo schematismo elementare dei caratteri impedisce la creazione di un panorama storico e riduce l'invettiva anticapitalista a semplice motivo dell'intreccio), esso è probabilmente all'origine dell'affannoso incedere della trama, che mescola indizi storici, spunti bellici, trovate comiche, sottotrame sentimentali in un raffazzonato calderone, che fatica a trovare un'anima.
Viene quasi da rimpiangere la sfacciata gratuità di Jack Sparrow, personaggio senza storia che si esauriva nel presente del racconto. Il problematico pellerossa Tonto, nuova estrosa incarnazione di Depp, non condivide la fortuna del capitano della Perla Nera, i cui fantastici trascorsi (l'esser, ad esempio, fuggito da un'isola deserta legandosi due tartarughe marine ai piedi) svaporano nell'inconsistenza della tradizione orale e valgono, in quanto elementi pittoreschi, a definire un'atmosfera più che un carattere. Per Jack il passato è un mutevole canovaccio da manipolare secondo le esigenze del momento, per l'indiano Cheyenne è l'origine di un intollerabile senso di colpa, che lo ha condotto al delirio e alla paranoia, sino al punto da alterare la realtà e convincersi di avere una missione da portare a termine pur di rimuovere la radice di quel dolore. Sfortunatamente questo carico emotivo del protagonista (nella versione di Verbisnki e Bruckheimer non è certo il Cavaliere solitario il fulcro delle attenzioni) mal si concilia con il tono enfatico di un film, che vorrebbe essere anzitutto un pleonastico
divertissement popolato da bozzetti umani più che personaggi.
In tal senso si faticano a comprendere le digressioni e i momenti di stallo che vorrebbero indagare le qualità umane dei protagonisti, ignorando che ciascuno porta già scritto sul corpo il proprio ruolo come un'etichetta: il feroce bandito Butch Cavendish (William Fichtner), dal volto ispido e sfigurato da un ghigno persistente, la pettoruta maîtresse dal cuore nobile (Helena Bonham Carter), che nasconde una gamba d'avorio sotto la gonnella, l'intrepido texas ranger Dan Reid (James Badge Dale), destinato ad un'amara dipartita. Curioso che a mancare, in questo sbrigativo appello, sia proprio John Ried, il cavaliere solitario che cita John Locke e disserta di giustizia, il protagonista divenuto comprimario, che, pur interpretato dal bravo Armie Hammer (apprezzato in "
The Social Network" e "
J. Edgar"), stenta ad imprimersi nella memoria, come già accadeva all'onesto Will Turner in "Pirati dei Caraibi".
Si diceva che non tutto è da buttare: l'apertura, ad esempio, funziona, con quel prologo al luna park (già una dichiarazione d'intenti) e l'immagine statuaria di Tonto pietrificato in un diorama che si anima all'improvviso e racconta ad uno stupefatto ragazzino la "vera" storia del cavaliere solitario. E se l'arredo in pvc della teca anticipa quel senso di realtà artefatta che accompagna gli scenari del film, è difficile non concepire le distorsioni nel racconto dell'indiano come un richiamo al confronto dialettico tra mito e realtà, senza che il registro epico dell'epopea western così come è stata traslitterata dal cinema ottunda la memoria storica e, nella fattispecie, il deliberato sterminio delle popolazioni native da parte dell'esercito americano.
Di grande effetto, poi, il pirotecnico finale, a metà tra Indiana Jones e Wile E. Coyote, in cui Verbinski dà libero sfogo alla sua macchina da presa imbastendo un esaltante circo di carrozze che si rincorrono, binari intrecciati e fuochi d'artificio, mentre Hans Zimmer detta il ritmo arrangiando l'
ouverture del Guglielmo Tell.
Difficile concepire un climax più pacchiano e debordante, ma - ci perdonerà Rossini - l'ultima mezz'ora fila via che è un piacere.
06/07/2013