Una carrellata tra le pellicole di Clint Eastwood degli ultimi venticinque anni permetterebbe di attraversare in apnea la storia degli Stati Uniti d’America del XX secolo. Con un prologo datato 1880, dove la polvere del western denuda il tramonto di un’epoca e ci introduce senza artifizi e illusioni in questo universo. Nei sanguinosi campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, nella Los Angeles del proibizionismo, in notturni locali jazz, fuori e dentro le sbarre di una prigione, su strade macchiate di peccati imperdonabili. L’America raccontata attraverso un’umanità piccola, umile, ma al contempo grande. Se il contenitore di una nazione immensa è costruito dai potenti, l’umanità è regnata dall’animo umano dei vinti. Anche quando si è introdotto nelle camere dei piani alti, il potere assoluto era filtrato attraverso gli occhi dell’altro, l’osservazione poteva farsi curiosa, ai limiti del voyeurismo, ma mai addentrarsi nelle stanze del potere. C’è sempre stata una barriera, nemmeno troppo trasparente, tra gli stanzini e gli stanzoni.
“J. Edgar” non è il primo biopic dell’Eastwood regista. E’ però il più esteso nell’azione: copre l’intera carriera di Hoover da direttore dell’Fbi (1924-1972), cominciando a setacciare il suo percorso dal pre-incarico (più un breve flashback dell’infanzia), fino alla sua morte.
Per la prima volta gli occhi, la mente, lo spirito di un film del regista sono guidati da un uomo potente, tra le figure cardine del secolo passato, colui che ha attraversato la bellezza di otto presidenti degli Stati Uniti, colui che nel bene e nel male ha sfiorato o toccato John Dillinger e i Kennedy, Martin Luther King e Richard Nixon, Charles Lindbergh e Charlie Chaplin. Più un’altra miriade di personalità famose o meno, ricordate o scordate.
Per introdursi nella sfera politica e privata di Hoover, Eastwood predilige gli interni agli esterni, la parola all’azione (si conta appena un raid in una tipografia clandestina e una breve sparatoria, tra l’altro di importanza marginale nel contesto generale).
“J. Edgar”, ancor prima che un film sul potere, è un’opera dedicata a un potente. Il film scava soltanto trasversalmente tra i sotterranei meandri della politica del Ventesimo secolo: le figure di Kennedy, Nixon e Martin Luther King, incastrate nel tessuto narrativo con poche, efficaci pennellate, si riversano sull’Io del protagonista piuttosto che sull’intero territorio che calpesta. Anche quando descrive persone realmente esistite, Eastwood predilige la descrizione di una storia che fa la Storia, e non viceversa. Esplicativa, significativa in tal senso la sequenza del protagonista che apprende la notizia della morte di John Kennedy, che interrompe le visioni scaturite dalle registrazioni di un incontro intimo. Anche i grandi eventi storici restano imprigionati nel corpo e sul volto di Hoover.
Una figura capace di mettere insieme dossier privati delle più importanti personalità della nazione, ma di tenere in una botte di ferro qualsiasi aspetto della sua sfera privata. I dati di fatto sono che J. Edgar Hoover rimase sempre scapolo, così come risaputi sono i quotidiani pranzi e cene in compagnia del suo braccio destro di una vita intera, Clyde Tolson.
La sceneggiatura di Dustin Lance Black mette il dito nella piaga della presunta omosessualità (repressa) di Hoover e della storia passionale con Tolson. Abbozza, ma non calca la mano: l’omosessualità di Hoover è rappresentata come il lato oscuro della diversità, l’incapacità di esprimersi, di manifestarsi libero tra la gente. In definitiva: di vivere la propria vita; e, dunque, l’esatto contrario di Harvey Milk (il biopic di Gus Van Sant che valse al giovane sceneggiatore l’Oscar nel 2008).
Consci sia dell’impossibilità di condensare una vita tanto complessa in un minutaggio compresso per una regolare distribuzione in sala, sia dell’inutilità di prendersi licenze fantastiche in una vita di un persona pur discussa e discutibile, Eastwood e Black optano per una narrazione frammentaria (che, pur con modalità diverse e ancor più sconnesse ha un precedente in “Bird”, biopic su Charlie Parker). Partendo da un memoriale scritto nella fase terminale della propria vita, il percorso di Hoover è scandito a colpi di flashback slegati – magari non aventi tutti la medesima dirompente e urgente forza espressiva - ma al contempo connessi da rime e associazioni interne, e con scansioni di blocchi protratti in più direzioni (la storia di Baby Lindbergh, tra l’altro esplicitamente imparentata con le ossa di “Changeling”). Le domande che scaturiscono sono parecchie, le risposte fornite non possono che essere poche o nulle. L’alone da personaggio shakespeariano (un Re Lear per il nostro secolo) sono suggerite fin dall’atmosfera plumbea che domina il film, da un colore grigio, un falso bianco e nero che necessita del colore proprio per rimarcare le tonalità consumate delle basse tinte che dominano il tempo di Hoover e il nostro tempo. Un tempo che con la scansione dei flashback stringe e soffoca il protagonista: le azioni della gioventù si perdono, si fondono e si confondono con quelle della vecchiaia: si entra in ascensore vecchi, se ne esce giovani, si assiste a una gara ippica sulla stessa lunghezza d’onda dello ieri. Il tempo di una vita intera stringe, si fa asfissiante, la storia travolge, ma l’uomo resta ancorato alla sua immobilità, all’incapacità di trovare concreti sbocchi di libertà, all’impossibilità di eludere lo stesso ruolo che l’ha fatto grande.
Figura di primo piano nella storia statunitense, come detto, John Edgar Hoover ne esce come uomo vecchia maniera, imprigionato da ideali e schemi risalenti a inizio Novecento. Geniale nel suo lavoro (fu il primo poliziotto scientifico e moderno, colui che ha inventato il sistema delle impronte digitali), ma incapace di stare al passo con i tempi, uomo di destra, anticomunista, razzista, capace di strategie non propriamente corrette pur di incastrare alcuni dei suoi nemici. La statura mitica viene smantellata ineluttabilmente proprio perché a decantarne la sconfitta iconica è proprio il suo braccio destro, ormai vecchio. Emerge un ritratto critico ma non irrisorio, che mette in discussione una figura che riesce però a rileggere con rispetto.
Ed è ancora una volta nei momenti di quiete che emerge l’umanesimo di Clint Eastwood: alcune sequenze tra Hoover e Tolson, certo, ma è nel rapporto tra Edgar e sua madre Anna Marie (esemplare la distensione della scena di ballo): oppressiva e al contempo irrinunciabile ragione di vita, J. Edgar Hoover trova nell’irrisolvibile contraddittorietà di questo rapporto, lo specchio del suo essere. Quell’umanità che ha voluto tenere nascosta nel corso della sua vita, sboccia in “J. Edgar” grazie anche alla strepitosa interpretazione che gli dona Leonardo DiCaprio.
cast:
Leonardo DiCaprio, Armie Hammer, Naomi Watts, Josh Lucas, Judi Dench, Ed Westwick
regia:
Clint Eastwood
titolo originale:
J. Edgar
distribuzione:
Warner Bros
durata:
137'
produzione:
Imagine Entertainment, Malpaso Productions, Wintergreen Productions
sceneggiatura:
Dustin Lance Black
fotografia:
Tom Stern
scenografie:
James J. Murakami
montaggio:
Joel Cox, Gary Roach
costumi:
Deborah Hopper
musiche:
Clint Eastwood
Biografia di J. Edgar Hoover, tra gli uomini americani più potenti del XX Secolo. Direttore dell’FBI per quasi cinquanta anni (1924-1972: fino alla sua morte), attraversò otto diversi presidenti, grandi gangster e importanti personalità della vita socio-politica. Tanto autorevole sul lavoro, tanto misteriosa era la sua privata, tra una madre oppressiva e una repressa omosessualità.