Difficile parlare compiutamente di "The Limits of Control", opera numero dieci di Jim Jarmusch, partito dalla New York della No Wave e divenuto, ormai, maestro e guru del cinema indipendente statunitense. Facile, però, capire perché è diventato il capitolo della sua produzione archiviato più in fretta.
Si tratta di un oggetto filmico ineffabile e di difficile collocazione, nel quale Jarmusch flirta col noir citando nuovamente
Jean-Pierre Melville (dopo "Ghost Dog", 1999) ma con una messa in scena radicale e una scrittura che si avvia verso l’astrazione
lynchiana. Assistendo alla proiezione del film, alla maggior parte degli spettatori sorgerà solo un grande punto interrogativo lungo quasi 120 minuti, vuoi per la ripetitività delle scene, vuoi per l'apparente inconcludenza narrativa. Infine, in pochi hanno veramente parlato di quest'opera, il che è quasi un controsenso: solitamente meno si capisce qualcosa più si tenta di sviscerarlo anche nei dettagli meno significativi, con l'unico obiettivo di poterlo controllare del tutto (e rassicurarsi della propria intelligenza). Opera minore, dunque, sia per risultato che per ricezione? Per alcuni sicuramente sì, per altri un cult non colto del canuto regista di Cuyahoga Falls.
Il protagonista è un sicario senza nome chiamato nei titoli di coda "Lone Man" (uomo solitario) che all’inizio del film riceve un contratto da dei francesi che gli fanno una domanda retorica "Non parli lo spagnolo, vero?", per poi intraprendere un discorso esistenzialista virante vero il nonsense. Alcune delle frasi tradotte dal francese per lui sono "Colui che pensa di essere più grande degli altri deve andare al cimitero. E vedrà quello che è la vita: una manciata di polvere." - "La vida no vale nada" - "La realtà è arbitraria"; l'uomo, interpretato Isaac de Bankolé, ascolta in silenzio e sembra capire dove vuole andare a parare il suo datore di lavoro. Il nostro killer parte quindi per la Spagna, iniziando un pellegrinaggio tra diversi luoghi che ricorda non poco "Professione: Reporter" (Antonioni, 1975), vuoi per le location, vuoi per le inquadrature spesso pittoriche che integrano espressivamente anche l’apparato architettonico. Una Madrid dai volumi barocchi rappresenta la prima tappa del sicario, e il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia il luogo dove ama trascorrere le giornate, fissando a lungo le opere d’arte da cui si sente attratto. Ogni giorno si ferma nello stesso bar dove chiede due caffè, entrambi per lui, aspettando di incontrare il personaggio di turno che deve fornirgli gli indizi necessari per raggiungere il suo obiettivo. La routine è essenziale, così come gli esercizi di tai chi. L'effetto cartolina è evitato e ci si sposta presto verso Siviglia, Almeria e la zona di Tabernas in un'interessante regressione urbanistica, dalla capitale spagnola fino al paesaggio arido e scarno del deserto
La macchina da presa di Christopher Doyle ha movimenti più minimali rispetto ai
tour de force wonghiani: alterna macchina a mano con lente carrellate laterali, che riprendono le passeggiate dell’uomo solitario. Si sfruttano i colori naturali degli scenari facendoli contrastare con quelli dei personaggi, ciascuno cromaticamente caratterizzato. L’esangue dama in bianco di Tilda Swinton, la bambola di carne, perennemente nuda, di Paz de la Huerta, lo stesso protagonista che indossa solo abiti tinta su tinta. Anche le musiche (dei
Boris con qualche inserto di classica) sono votate alla costruzione di un’atmosfera misteriosa, in cui aleggia l’idea di una cospirazione in atto, riuscendo in tal modo ad avere una resa ipnotica.
La variazione sul tema de "Le Samouraï" (citato esplicitamente) è condotta sul senso del titolo, i limiti del controllo, esemplificato poi dall'incontro finale con un uomo americano (un politico?) che vive in un bunker e ha il volto di Bill Murray. Il personaggio con la spilletta degli Stati Uniti sulla giacca dice che l’uomo che ha davanti deve appartenere a qualche gruppo che crede che eliminandolo si distruggerà il controllo su una qualche realtà artificiale. Ma è davvero così? Non si può rispondere, perché quello che manca a un film-limite di questo tipo è la spregiudicatezza di fare un discorso a 360° su quali siano "i limiti", anche del linguaggio cinematografico e sui limiti del (suo) controllo: battere una strada invece di suggerire molteplici circoli ermeneutici, nessuno dei quali realmente plausibile (inevitabile pensare al recente "
Holy Motors" di Carax). Eppure, la pratica cinematografica jarmuschiana non è mai vacua: ha la sostanza dei riti del killer protagonista, espleta la propria oscura liturgia, abbandonando definitivamente la forma-racconto. E appaga la cura certosina di quello che appare come un prodotto ludico e raffinato.
20/04/2013