Una storia di guerra è per necessità una storia di sangue e violenza anche. Violenza e violenze che catturano gli individui nelle maglie della grande storia, della storia dei politici e delle nazioni per i quali gli uomini giocano da piccole comparse in una giostra troppo grande - il grandioso monologo centrale dell'ultima opera di Bela Tarr ("Il cavallo di Torino", 2011) centra il punto in pieno. Una storia di guerra è per necessità una storia di miseria: di quella miseria che rappresenta la rovina dell'umanismo, la miseria di un vivere atrocità, del perdersi stesso dell'uomo in un labirintico incubo che non lascia vie di fuga - il maestro Wajda lo indica chiaramente ne "I dannati di Varsavia" (1957), ma anche Marker ha saputo dire qualcosa di rilevante a riguardo ("La Jetée", 1962). Una storia di guerra è una non-storia, è un flusso convulso, un viluppo inestricabile di storie secondarie in cui al fine d'una vittoria è funzionale perdere se stessi (vedi Eastwood in "Flags of our Fathers" e ancora meglio in "Lettere da Iwo Jima") tanto da diventare d'obbligo l'anteporre il prefisso "anti-" alla parola "eroe" (ce ne parlava già Anthony Mann in "Uomini in guerra", 1957) soprattutto quando l'unica gloria che resta all'uomo è quella di sopravvivere (Fullern ne "Il grande uno rosso", 1980) o di decidere per la certezza della morte ("I sette samurai" di Kurosawa, 1954), che alla fine non sono altro che due diverse facce di uno stesso nichilismo.
Insomma, sono molteplici e interessanti i discorsi aperti dal cinema di guerra, ma alle volte capita che una pellicola divenga vittima del cinema stesso intrappolata da strutture narrative oramai consolidatesi in canoni e stilemi estetici che assorbono il possibile contenuto. "The Flowers of War" è l'esempio eclatante di come un film possa essere assoggettato al canonico, al logoro, al superfluo e a quel "già" che può esser accompagnato da participi varii: "già visto", "già detto", "già digerito", etc etc. Così il colossal di Yimou sull'assedio di Nanjing perde completamente di vista il focus sul suo centro gravitazionale e barcolla indeciso sui contorni e su quegli aspetti più appariscenti e brutali anche (e soprattutto) che non aggiungono nulla e non reggono il confronto con pellicole che hanno saputo farne virtù (si pensi ad esempio ai "13 assassini" di Miike Takashi).
La storia è semplice, e anche per questo interessante. Il becchino americano John Miller (un Christian Bale non particolarmente nel personaggio) si trova incastrato dall'assedio giapponese alla città cinese di Nanchino, precluse le vie di fuga si fingerà prete per sopravvivere e per aiutare un piccolo gruppo di collegiali a sfuggire al massacro. Peccato che la metamorfosi del protagonista avvenga troppo repentinamente (e stiamo parlando di un film che dura due ore e mezza) e artificiosamente, quasi fosse frutto d'un gioco. Peccato che la vita del microcosmo nato dalla forzata convivenza di Miller, delle collegiali e di un gruppo di prostitute non riesca ad essere rappresentato da tinte più definite e variegate, ma si appiattisca su una trama che deve procedere incessantemente. Peccato perché ci troviamo chiaramente davanti ad un film che avrebbe del potenziale non sviluppato adeguatamente: "The Flowers of War" sembra stare sulla cima d'una polveriera piena di emozioni e dolori, ma che non riesce a deflagare. Tra una suspence a tratti palpabile e una sceneggiatura sempre prevedibile, spicca sopra a tutto la fotografia di Zhao Xiaoding che, tra contrasti cromatici ed elaborati giochi di luce, sembra riuscire a cogliere la portata caleidoscopica del dramma rappresentato con più sottigliezza dello stesso regista.
Pur non avvicinandosi ai livelli di bruttura e stereotipazione già visti nel colosso taiwanese "Seediq Bale" (2011), prodotto da John Woo, anche "The Flowers of War" si perde in una retorica da film per le masse al modo del pessimo war movie spielberghiano "Salvate il soldato Ryan" (il più prossimo termine di paragone per questo film) rispetto al quale però si distingue grazie a una serie di interessanti soluzioni visive che sbocciano a tratti in una poetica dei colori, questi tra i rari momenti in cui il talento di Zhang Yimou esplode e si mette in mostra in pieno, ma che poteva essere sviluppata a discapito di linee di trama più scontate.
cast:
Christian Bale, Shawn Dou, Cao Kefan, Takashi Yamanaka, Huang Tianyuan, Bai Xue, Tong Dawei, Atsuro Watabe, Shigeo Kobayashi, Ni Ni, Zhang Xinyi, Huang Hai-Bo
regia:
Zhang Yimou
titolo originale:
Jin líng shí san chai
durata:
150'
produzione:
Weiping Zhang
sceneggiatura:
Heng Liu, Geling Yan
fotografia:
Xiaoding Zhao
scenografie:
Yohei Taneda
montaggio:
Peicong Meng
costumi:
William Chang
musiche:
Qigang Chen