Rick Alverson non è un regista facile per lo spettatore. Oltre al ritmo piuttosto compassato la forma del suo cinema può rivelarsi ostica anche negli aspetti più basilari come possono esserlo i dialoghi, nei film da lui realizzati spesso avari di parole, oppure nei personaggi, per la maggior parte caratterizzati da una fisicità respingente e da una fisiognomica stravolta ai limiti del caricaturale. "The Mountain", presentato nel concorso ufficiale della 75° Mostra del cinema di Venezia non fa eccezione. Anzi, si potrebbe dire che la scelta di collocare una storia di fisiologie imperfette all'interno di un segmento temporale come quello dell'America degli anni Cinquanta, fotogenicamente impeccabile, sia il biglietto da visita migliore per attestare la singolarità del nostro regista. Il quale, in un certo senso, sembra riprendere il discorso interrotto con "
Entertainment", continuando a presentarci un'America diversa - anche esteticamente - da quella pubblicizzata dalla propaganda ufficiale e soprattutto invisibile agli occhi degli osservatori meno attenti. La vicenda in questione infatti ci porta nella provincia del paese al seguito Dottor Wallace Fiennes (Jeff Godblum) specializzato in lobotomie e di Andy (il Tye Sheridan di "
Ready Player One"), il giovane assistente che ha deciso di seguirlo dopo la morte del genitore.
Confortato da una base storicamente riconosciuta (dietro il personaggi di Fiennes si nasconde quello del Dr. Walter Freeman, il pioniere della procedura medica summenzionata) e fondato su una messinscena realistica nella ricostruzione di ambienti e tipologie umane, "The Mountain" circoscrive l'universo dei personaggi non solo dal punto di vista visivo, ovverosia scegliendo un formato ridotto rispetto al normale, ma anche per quanto riguarda la composizione delle singole scene nella quali Andy, il vero protagonista del film, è spesso ripreso da solo e all'interno di strutture (sanitarie e domestiche) che rimandano all'isolamento del ragazzo rispetto al resto del contesto. Se appare esagerato equiparare questo slittamento di senso a un approccio percettivo nei confronti della vicenda, è pur vero che con il passare dei minuti la presenza di deformazioni ottiche e un uso del suono a volte sgrammaticato segnalano la compresenza di due piani di narrazione: quello ricavato soffermandosi sulla superficie degli eventi, di numero ridotto e in molti casi lasciati in sospeso, e l'altro, invece che pare il riflesso di ciò che accade dentro la mente del protagonista. E se nel primo dei due aspetti la trama segue un binario abbastanza scontato e talvolta ripetitivo, è il secondo a offrire gli spunti più interessanti quando si tratta di dichiarare la propria impotenza di fronte all'ineluttabilità del destino umano, condannato dalle caratteristiche intrinseche di una "malattia" non solo endemica ma pure "democratica", capace di colpire anche coloro che dovrebbero curarla.
A proprio agio quando si tratta di suggerire atmosfere e stati d'animo proprie della condizione umana, "The Mountain" diventa quasi impacciato nel momento in cui i personaggi si trovano per forza di cose a dover prendere delle decisioni e, per dirla senza mezzi termini, a dare seguito alle premesse dei propri comportamenti. Messo alle strette dalle istanze narrative, Alverson finisce per andare fuori giri, pasticciando un lavoro che fino a un certo punto era stato impeccabile: dapprima inserendo nella tragedia una svolta sentimentale che porta Andy a prendere decisioni drastiche ma un po' forzate e, in seguito, rifugiandosi in un finale dal sapore trascendentale suggellato da un monologo di Denis Lavant, catapultato nella storia un po' per caso e non si capisce per quale motivo chiamato da Alverson a interpretare una specie di guru/sacerdote. A rincarare le stravaganze poi ci pensa la scelta di attribuire virtù carismatiche alla montagna del titolo, (forse) depositaria di una salvezza che però sembra giungere fuori tempo massimo. Per i personaggi e pure per lo spettatore.