Ogni anno su Variety esce l'usuale elenco dei dieci registi da tenere d'occhio. Ai primi di gennaio del 2019 la rivista inizia a pubblicare una serie di articoli di approfondimento su tali filmmaker e sul loro prossimo lavoro: tra i dieci nomi c'è quello di Lulu Wang, il cui "The Farewell – Una bugia buona" è atteso al Sundance Film Festival, dove riceverà una calorosa accoglienza. I diritti di distribuzione vengono acquisiti dalla A24, compagnia fondata a New York nel 2012 e artefice di alcuni dei maggiori fenomeni del circuito indie e arthouse del decennio, da "Spring Breakers" di Harmony Korine a "Midsommar" di Ari Aster, passando per l'Oscar di "Moonlight". Uscito nelle sale americane quest'estate, "The Farewell" è stato un beniamino della critica e del pubblico guadagnando quasi 20 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, a fronte di un budget minuscolo di appena 3 milioni – costante di molte opere targate A24. In attesa degli Oscar, sta ottenendo diverse candidature tra cui due, piuttosto rilevanti, ai Golden Globe: quelli per la miglior attrice protagonista in una commedia o musical e per il miglior film in lingua straniera, poiché "The Farewell" è in larga parte recitato in mandarino.
La storia al centro del film era stata raccontata dalla regista Lulu Wang in una puntata del programma radiofonico This American Life, col titolo "What You Don't Know" ed è largamente autobiografica. La Wang è nata a Pechino nel 1983 e si è trasferita a sei anni a Miami con la famiglia, similmente alla sua protagonista Billi (interpretata dalla rapper e attrice Awkwafina), una ragazza cinese di trent'anni naturalizzata americana. All'inizio del film Billi, che è un'aspirante scrittrice che abita a New York, telefona a Nai Nai (termine informale con cui in mandarino si indica la nonna paterna) mentre questa è nella sala d'attesa di un ospedale dove sta per sottoporsi a una serie di esami. La nonna non dice la verità alla nipote, telefonandole solo in un secondo momento per spiegarle che la TAC non ha rilevato alcun segno di malattia.
A quanto pare in Cina c'è un adagio che recita che le persone non muoiono di cancro ma di paura; il credo buddista prevede infatti un'armonia tra corpo e spirito e uno stato d'animo cupo e depresso non può che inficiare sulla salute fisica. È quindi pratica piuttosto comune non parlare ai malati terminali delle loro effettive condizioni, al fine di non spaventarli e affinché possano vivere serenamente i loro ultimi giorni. Nel film vediamo che i risultati dei test vengono raccolti dalla sorella di Nai Nai, la quale la rassicura di godere di una salute di ferro, quando in realtà le è stato diagnosticato lo stadio avanzato di un tumore. La famiglia si organizza così per andare a trovare Nai Nai a Changchun, improvvisando come stratagemma le nozze del nipote maschio che vive in Giappone.
Da questo plot autobiografico Lulu Wang orchestra una dramedy familiare che indaga la difficoltà di chi, emigrando in un altro paese, vive in bilico tra due mondi, tra due modi di intendere la vita, tra due culture e tra due lingue (con l'onta, per Billi, di parlare male la lingua madre). L'identità della protagonista è scissa: da una parte il senso di appartenenza nei confronti dei consanguinei, che, per converso, conosce poco, dall'altra la propria consapevolezza di giovane donna indipendente (che non sente il bisogno di sposarsi, nonostante abbia già trent'anni). La presenza di Nai Nai simboleggia l'ultimo baluardo prima della dissoluzione delle radici: infatti, i due figli emigrati (uno negli Stati Uniti e l’altro in Giappone) nutrono sentimenti contraddittori verso la madrepatria, ne hanno nostalgia ma - scopriamo - non passano del tempo riuniti sotto lo stesso tetto da almeno vent'anni. In una scena particolarmente significativa, girata nella semi-oscurità bagnata dai neon delle strade, lo zio tenta di spiegare a Billi perché mentire alla nonna sulle sue reali condizioni non è sbagliato, essendo fatto a fin di bene: lei, ormai culturalmente americana, crede che la vita appartenga soltanto all'individuo, mentre per i cinesi la vita individuale è parte di un sistema più complesso, in cui rientra la famiglia, la comunità, la società. E in questo caso deve essere la famiglia a farsi carico del fardello della malattia, cercando di privare l'anziana di ogni dolore. Infatti, scoperta la cattiva novella, non solo si precipitano per andare a porgere un ultimo saluto alla propria madre ma si organizzano per le nozze improvvisate, sacrificando il povero Hao Hao e la spaesata fidanzata giapponese e consegnandoli alle ambizioni organizzativo-celebrative dell'attivissima e agguerrita matriarca.
È intuibile come "The Farewell - Una bugia buona" sia a un livello tematico estremamente interessante ed attuale; Lulu Wang, che non nasconde nemmeno per un attimo di stare parlando della sua vita, imbastisce una narrazione sentita e genuina (pur lasciando un imprevedibile colpo di scena all'inizio dei titoli di coda). Non si fatica dunque a capire perché negli Stati Uniti un lavoro del genere abbia riscosso tanti apprezzamenti, visto che la Wang proviene da una di quelle comunità che, finora sotto-rappresentate nel cinema americano, stanno gradualmente trovando uno spazio produttivo per potersi esprimere liberamente, facendo prevalere il proprio punto di vista, finalmente interno alle minoranze. "The Farewell" segue il successo inaspettato della commedia "Crazy & Rich", con cui condivide l’ambizione di un cast completamente asiatico, questione per la quale la Wang si è battuta e a causa della quale stava rinunciando alla realizzazione del film (le difficolta vengono raccontate dalla stessa in un'intervista a IndieWire).
"The Farewell" sa come farsi amare, ma un film non si costituisce solo a partire dalle intenzioni del suo creatore. E il lavoro della Wang non è in realtà particolarmente incisivo, né sul piano della scrittura, né su quello registico, spiccando invece per la direzione degli attori. La sceneggiatura si sviluppa attraverso un racconto lineare ed espositivo, a tratti persino didascalico nei dialoghi. Sul piano della regia è interessante confrontare il risultato a quelli che sono i modelli conclamati da Anna Franquesa Solano, la direttrice della fotografia, ossia il Kore'eda di "Still Walking" e "Forza maggiore" di Östlund. Se è vero che le inquadrature sono statiche, dell'autore giapponese manca la cura estrema nella composizione del quadro, soprattutto laddove le inquadrature lavorano anche intorno al fuori campo sotteso; oltre alla pulizia formale, di Östlund sono assenti sia il tono dissacrante, sia le situazioni assurde, poiché la menzogna che dà il via alla performance dei familiari si poggia su una base culturale che diviene via via meno incomprensibile. La palette cromatica è graduata su tonalità di blu, verdi e grigi rientrando pigramente nei canoni estetici del cinema indie degli ultimi anni: la Wang, infatti, si definisce una filmmaker americana ed è palese come il suo modo di fare cinema (simmetrie centrali, rallenti) sia influenzato maggiormente da Wes Anderson rispetto a Kore'eda. In tal senso, elude, sul piano del linguaggio filmico, quel conflitto/confronto che viene verbalmente sostenuto dai personaggi lungo l'intero arco narrativo. Concludendo, è notevole l’interpretazione degli attori, a partire da Awkwafina che, col suo volto imbronciato, l'andatura un po' ingobbita e la schermatura ironica tipica dei millennial, dimostra una grande alchimia con la Nai Nai impersonata dalla deliziosa Zhao Shuzhen. Il suo nome, così come quello della regista, resta da tenere d'occhio per il prossimo futuro.
cast:
Awkwafina , Tzi Ma, Diana Lin, Zhao Shuzhen, Lu Hong, Jiang Yongbo, Chen Han, Aoi Mizuhara, Li Xiang
regia:
Lulu Wang
titolo originale:
The Farewell
distribuzione:
BiM Distribuzione
durata:
100'
produzione:
Big Beach, Depth of Field, Kindred Spirit
sceneggiatura:
Lulu Wang
fotografia:
Anna Franquesa Solano
scenografie:
Yong Ok Lee
montaggio:
Matt Friedman, Michael Taylor
costumi:
Vanessa Porter, Athena Wang
musiche:
Alex Weston