"Non cercare di capire; sentilo." Il consiglio di Laura (Clémence Poésy), scienziata che studia gli oggetti invertiti, non vale soltanto per il protagonista ma anche per lo spettatore, invitato a meravigliarsi di un mondo in cui cose e persone venute dal futuro, in virtù dell’entropia negativa, si muovono all’inverso. E così i proiettili tornano nelle pistole, le esplosioni si ricompattano negli involucri delle bombe, le lingue vengono parlate al contrario, le vittime di un incendio soffrono di ipotermia.
Il sovvertimento carnevalesco delle leggi della fisica potrebbe fungere da setup comico, se non fosse che gli oggetti invertiti sono "detriti di una guerra futura", armi di una posterità bellicosa che minaccia il presente grazie alla complicità del potente trafficante d’armi russo Andrei Sator (Kenneth Branagh). Dopo l’assalto che Sator muove al teatro operistico di Kiev, il Protagonista (John David Washington), mai nominato in altro modo, viene incaricato di sventare il collasso dello spaziotempo tramite una semplice parola in codice – "tenet". Con il supporto di un altro agente, il dissoluto Neil (Robert Pattinson), e l’ambiguo favoreggiamento di Kat (Elizabeth Debicki), moglie di Sator, il Protagonista si tuffa in un gorgo Bond-esco di scazzottate, cene, inseguimenti, flirt, sparatorie, camuffamenti ed esplosioni, imbastendo con suture grossolane un variegato patchwork di generi – azione, guerra, fantascienza, thriller, spionaggio, heist, poliziesco, romance e bromance. In parte Gilliam per il pessimismo immaginoso, in parte Winding Refn nella fascinazione feticista per il lusso, in parte Fincher nell'analisi paranoica di una società percorsa da trame invisibili e conflitti occulti, "Tenet" è in fondo soprattutto Nolan. Come in "Inception", ogni capitolo è film nel film, missione nella missione, anche se qui manca dichiaratamente la ricerca introspettiva implicata nel film del 2010.
Detto dell’ottima prova di Washington e Pattinson nei ruoli prominenti – ma stereotipati – a spiccare sono soprattutto Debicki per rilievo e Branagh in una prova chiaroscurale. Nella filmografia nolaniana, dove la donna figura spesso come icona, emblema di una sacralità violata, perduta, viva soltanto o soprattutto nella memoria, Debicki incarna un personaggio imprevedibile nella sua razionalità materna, vivace nella sua ambiguità glaciale. Analogamente, Branagh dà un volto tangibile al narcisismo mortifero che sembra costituire un tratto saliente della contemporaneità, quella chiusura verso l’Altro che deriva dall’incapacità di integrare Io e mondo, facendoli piuttosto coincidere.
Il villain nichilista che "non crede a nulla all’infuori di sé stesso" è il profilo più concreto in una storia talmente astratta da dover ricorrere, per (di)spiegarsi, a svariati stratagemmi meta-testuali. Nel Nolan-verso, l’azione è sempre un punctum impresso sullo sfondo (studium) di paesaggi concettuali in cui gentiluomini inglesi descrivono città fantasma sovietiche davanti a una bistecca e paperoni russi negoziano lingotti di plutonio in catamarano.
Non di rado i personaggi assumono o dichiarano apertamente la propria funzione narratologica ("Io sono il protagonista"), intervallando le scene d’azione con briefing esaustivi e puntuali spiegazioni. Più ancora sono i dialoghi a presupporre la presenza di uno spettatore implicito, chiamato (in maniera esplicita) a imbarcarsi sul film come su una zattera, fluttuando con rassegnata speranza tra il ludico, l'estetico e l’ironico ("Non cercare di capire; sentilo"; "Non c’è soluzione, è un paradosso"; "Quel che succede, succede"; "Hai già mal di testa?"). Altri indizi sono disseminati in qualità di filtri cromatici, primissimi piani di un dettaglio, gesti, parole, formule. La poetica nolaniana prosegue dunque, come notato in più occasioni da David Bordwell, con il recupero sintattico/semantico del cinema hollywoodiano anni 40 nell’ottica di comunicare in maniera efficace uno sperimentalismo prevalentemente tematico – entropia negativa, mondi paralleli e fisica dei quanti – e narratologico – sconvolgimento dell'ordine temporale. La dimensione meta-testuale e ludica di "Tenet" è in fondo annunciata già dal titolo e dalla struttura formale, riferiti al "latercolo pompeiano" o "quadrato del Sator" (Sator Arepo Tenet Opera Rotas), iscrizione esoterica di origine latina solitamente raffigurata a forma di croce palindromica: il trafficante SATOR, proprietario di un falso Goya disegnato da AREPO, è l'antagonista principale della missione TENET, che in seguito all’attacco al teatro dell’OPERA penetra nei suoi magazzini – il freeport ROTAS.
Nel mondo di "Tenet" non soltanto il linguaggio, anche il tempo è palindromo. L'uso ossessivo, eccessivo, del reverse motion, oltre all'influenza di Jean Cocteau tradisce l'ambizione di elevare una specifica tecnica di regia al rango di principio estetico generale, il quale condiziona il film nella sua interezza come un occulto centro di gravitazione, come già accaduto per il cross-cutting (o montaggio alternato) in varie opere dello stesso Nolan. In questo caso, però, l’armoniosa integrazione di complessità formale e fluidità narrativa è compromessa da una crescente confusione, concettuale e audiovisiva. I vetri sottili che in varie scene separano i piani temporali riflettono i due lati di uno stesso evento, permettendo alla storia di svelarsi gradualmente tramite raddoppiamenti e ripetizioni. Solo che il moto centripeto imprime alla diegesi la pienezza del cerchio, ma non il suo dinamismo; i personaggi si muovono avanti e indietro continuando a sparare in linea retta, catturati nell'oscillazione inesorabile e insensata di un pendolo.
Nolan moltiplica sfalsamenti cronologici e reverse motion ma il progetto, cerebrale senza essere arguto, muscolare senza essere avvincente, si esaurisce nell'esibizione compulsiva e compiaciuta del proprio meccanismo. Il ricorso estensivo alla "frequenza ripetitiva del racconto" (Genette) produce insomma un testo ridondante, che non potendo coinvolgere mediante la storyline compensa con le tattiche usuali del blockbuster: inquadrature brevi e rapide, panoramiche spettacolari, scoppi, spari, plot twist, un cannoneggiamento audiovisivo estenuante sottolineato dal synth-pop rudimentale e spossante di Göransson ("Creed," "Black Panther," "Venom"…), talvolta riprodotto all’inverso.
Filmato in IMAX e 70mm, con un rapporto di 2.20:1 e 150 minuti di brutale splendore della cinematografia di van Hoytema ("Interstellar," "Dunkirk," "Ad Astra"...), "Tenet" è costruito per indurre nello spettatore una risposta fisiologica più immediata e diretta delle leggi concettuali che pure lo pervadono. Nondimeno, la visione lascia il sospetto di una complessità sterile, irredenta dalla vuota magnificenza dei catamarani che sfrecciano a pelo d’acqua, dalla grandiosità frivola di un aeroplano che si schianta. C’è qualcosa di sinistro in un film che mira a dimostrare con l’essenzialità di un teorema la propria inessenzialità.
A meno che non consideriamo "Tenet" per ciò che realmente è – la parola magica evocata dal cinema stesso per esorcizzare lo spettro della propria crisi. Al tempo della pandemia globale, una storia di 007 che viaggiano nel tempo ambientata a Kiev, Londra, Mumbai, Tallinn, Oslo e Ravello sembra ribadire che l’umanità esiste innanzitutto come trama di relazioni, movimenti, desideri, intersezioni nello spazio e nel tempo. Tanto più se a firmarla è Nolan, che per uno strano scherzo del destino si trova a condividere la sorte del suo villain, colui che "non crede a nulla all’infuori di sé stesso": prigioniero del Nolan-verso, specchiato nelle proprie suggestioni, convenzioni, elucubrazioni, dovrà prima o poi ricordarsi dell’esistenza di un pubblico.
cast:
John David Washington, Robert Pattinson, Elizabeth Debicki, Kenneth Branagh, Michael Caine, Dimple Kapadia
regia:
Christopher Nolan
titolo originale:
Tenet
distribuzione:
Warner Bros
durata:
150'
produzione:
Syncopy Films, Warner Bros
sceneggiatura:
Christopher Nolan
fotografia:
Hoyte van Hoytema
scenografie:
Nathan Crowley
montaggio:
Jennifer Lame
costumi:
Jeffrey Kurland
musiche:
Ludwig Göransson